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Laurence Marie

Inventer l’acteur. Émotions et spectacle dans l’Europe des Lumières


Paris, Sorbonne Université Presses, 2019, 480 pp., euro 26,00
ISBN 979-10-231-0555-1

L'invenzione dell’attore nel Settecento

A chi ancora pensa che la storia dello spettacolo non sia una disciplina comparativistica si consiglia la lettura del bel libro di Laurence Marie, dedicato a quella che può essere forse definita come la tematica più importante della vita teatrale settecentesca. Nel corso dell’Età dei Lumi l’attore e le sue pratiche sono stati infatti oggetto di un’attenzione insistita e costante, sviluppatasi in tutta Europa e declinatasi in varie forme, ora attraverso l’operato dei drammaturghi, ora per mezzo di una ricca trattatistica in cui talvolta si sono cimentati gli stessi attori, oppure ancora grazie all’opera di disegnatori e pittori che hanno contribuito allo sviluppo della ritrattistica d’attore, dando così origine a veri e propri miti figurativi. La dimensione comparativistica appena ricordata costituisce la pietra angolare in termini epistemologici dell’intero volume. Come sottolinea a più riprese la stessa autrice, la materia viene affrontata sulla base di una duplice visuale, consistente da un lato nel considerare il ruolo dell’attore settecentesco secondo un’ottica di ampio respiro, svincolata dall’angustia di indagini incentrate su singole realtà nazionali e fondata piuttosto sul confronto tra ciò che accadeva nei principali paesi europei (Francia, Italia, Inghilterra, Germania); dall’altro prendendo in considerazione non solo la pura e semplice dimensione teatrale e spettacolare, ma allargando l’orizzonte di studio a un più ampio ventaglio di discipline artistiche e ambiti culturali, secondo una prospettiva dichiaratamente contestuale.

Il volume si articola in tre parti. La prima (De l’orateur à l’acteur) ripercorre l’evoluzione dell’arte dell’attore nel corso del Settecento partendo dalle istanze di affrancamento dal modello recitativo tipicamente francese messo a punto da l’Abbé d’Aubignac ne La pratique du théâtre alla metà del secolo XVII. Tale modello, fondato sull’identificazione dell’attore con l’oratore e della recitazione con la declamazione, e quindi sul primato assoluto della voce, entrò progressivamente in crisi a partire dagli anni Venti del Settecento anche grazie all’emergere di nuove modalità recitative, di ascendenza italiana o inglese, che privilegiavano al contempo pratiche performative legate da un lato all’improvvisazione e dall’altro ai valori espressivi del corpo dell’attore. È l’epoca in cui, attraverso diverse generazioni di attori che coprono quasi tutto il secolo XVIII – da Michel Baron a Adrienne Lecouvreur, da M.lle Dumesnil à M.lle Clairon a Henri-Louis Lekain –, si fa strada il cosiddetto «jeu naturel à la française» in parallelo all’affermarsi della cosiddetta «estéthique du tableau», riprendendo un titolo di un celebre libro di Pierre Frantz. Vettore importante nella trattazione di Laurence Marie l’analisi di testimonianze iconografiche, oltre una ventina di soggetti che consentono di restituire con sufficiente attendibilità pose, espressioni, gesti di alcuni attori dell’epoca: esemplare da questo punto di vista il caso di David Garrick, il più importante attore inglese del Settecento che non a caso si era reso protagonista di lunghe tournées in Francia. È questa, in termini complessivi, la temperie da cui nascerà l’esigenza di fondare, anche in termini teorici, una nuova arte che, oltre a trovare una propria formalizzazione nella trattatistica e in vere e proprie scuole, sarà soprattutto capace di elevare la figura dell’attore da mestierante ad artista, di farlo assurgere a una dimensione creatrice e autoriale.

La seconda parte del volume (Le corps en scène) si focalizza sull’elemento che nella nuova visione dell’attore riveste un ruolo di primissimo piano: il corpo, che di fatto costituisce il termine medio nell’eterna dialettica tra natura e artificio, passione e ragione, tematiche queste che troveranno la sintesi più alta nelle riflessioni diderottiane del Paradoxe sur le comédien. Centrale, a questo proposito, la riflessione sulla pantomima, nella quale l’attore recita «de toute sa personne», e sugli effetti della recitazione dell’attore sugli spettatori: un’arte, quella dell’attore, che proprio grazie al particolare rilievo assunto dal corpo, arriva a competere a pieno titolo con la pittura e prendendo le distanze allo stesso tempo dall’universo della parola, elaborando nuovi modelli di eloquenza strutturati sulla base dei codici visivi legati alla dimensione più squisitamente performativa: gesto, mimica, pose sceniche. Ugualmente centrale la prospettiva sviluppatasi a partire dal trattato Le Comédien di Rémond de Saint-Albine, vale a dire la necessità per l’attore di arrivare a sentire le emozioni e i sentimenti dei personaggi interpretati, e che diventa il fulcro di un’accesa dialettica tra passione e «sang froid­» ben evidenziata dall’autrice che ne ripercorre le declinazioni europee (da Sainte-Albine a Diderot, da Michel Sticotti a John Hill, da Aaron Hill a Lessing…), sempre nell’ottica comparativistica che costituisce il fil rouge  del volume.

Questa prospettiva si rafforza nella terza parte (Une révolution esthétique 1780-1815) nella quale Laurence Marie forza opportunamente la naturale scansione del secolo, prolungandone la cronologia fino all’intersezione tra la declinante temperie neoclassica e l’epoca romantica. Ed è qui, nello svilupparsi della contesa tra “vero” e “bello” lungo un percorso che porterà alla definizione del concetto di “bello ideale”, che la dimensione europea si arricchisce ulteriormente, essendo infatti convocate le maggiori personalità della cultura europea a cavallo tra Sette e Ottocento, che si dispongono attorno a forti polarizzazioni. Da un lato la dimensione del “sublime”, finalizzata alla ricreazione della natura sulla scena, principalmente declinata attraverso l’operato di Mlle Dumesnil, Larive e Talma; dall’altro il polo della recitazione ragionata, che sfugge all’immediatezza della passione, ovviamente rappresentata da Mlle Clairon. E ancora, nella vasta campitura concettuale del “bello ideale”, l’ampiezza e la complessità delle istanze teoriche, delle linee di tendenza estetiche frutto in larga parte delle contaminazioni tra differenti forme espressione artistica, trovano corpo nelle visioni e nelle pratiche artistiche di alcuni dei numeri tutelari della vita culturale tra i due secoli, da Goethe a Schiller, da pittori come Joshua Reynolds ad attori come Talma e i fratelli Kemble (Philip e Sarah Siddons).

Inventer l’acteur si configura quindi come un’opera di ampio respiro, che fa emergere la complessità di un secolo, il Settecento, che può essere considerato non solo come un significativo punto di svolta nella storia dello spettacolo occidentale, ma anche, come ben evidenzia l’autrice, un vero e proprio laboratorio per pensare il teatro moderno, capace di riverberarsi nella teoria e nella prassi di maestri della regia del primo Novecento quali Stanislavskij e Brecht, riattivando dialetticamente opposte visioni dell’arte dell’attore.



di Renzo Guardenti


La copertina

cast indice del volume


 



 
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