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Louis Jouvet

L’Art du théâtre

A cura di Marc Véron e Jean-Louis Besson
Tome I. Le métier de comédien; Tome II. Pratique du théâtre

Paris, Classiques Garnier, 2022, 448 + 496 pp., 39,00 euro
ISBN 978-2-406-12866-3 | 978-2-406-12869-4

All’attenzione rinnovata degli studiosi e dei teatranti, non soltanto francesi, l’opera di Louis Jouvet (1887-1951) propone notevoli sorprese e importanti conferme, come dimostrava il convegno tenuto nel 2015 (cfr. Louis Jouvet: artisan de la scène, penseur du théâtre, a cura di Ève Mascarau e Jean-Louis Besson, Montpellier, Deuxième époque, 2018). La pubblicazione dei suoi Scritti, nella collana “Études sur le Théâtre et les Arts de la Scène” (diretta da Marco Consolini, Tiphaine Karsenti e Florence Naugrette), offre ora quelle riflessioni già organizzate dall’autore. L’attore e regista ne conserva il carattere di annotazioni occasionali senza ambizioni da scrittore e le propone quali testimonianze appassionate sulla propria arte, intesa come risposta alla vocazione nel senso più nobile. Nella mansione di direttore di scena, affrontata da diciottenne («A dix-huit ans j’étais régisseur», scrive nel tomo II, p. 65) in collaborazione con Jacques Copeau al Vieux-Colombier, si accende subito il dibattitto, anche conflittuale, con il patron. Quei problemi segneranno, ormai in prospettiva, la sua maturazione in autonomia, fino alla gestione dei Teatri partecipanti al Cartel des Quatre.  

I due volumi scorrono attraenti per la varietà e la densità delle informazioni e si rendono preziosi nell’approfondimento. “L’Art du théâtre” è per Jouvet un dominio totalmente comprensivo della potenzialità artistica e dell’umana espressività. Il concetto di attore vi appare nelle due declinazioni, contigue e sfumate, di acteur e comédien che confluiscono nel metteur en scène, per un bisogno creativo assoluto. Il tomo primo insiste su quella condizione, tanto sofferta, di accoglienza vocazionale. Nel secondo, che prosegue l’indagine sul “mistero” del teatro, permane lo stesso stile e la partecipazione viscerale al fenomeno di cui l’autore si sente protagonista eletto. La Préface di Pierre Brisson, Les deux Jouvet, storicizza la vicenda dell’apprendista tuttofare che diventerà creatore e direttore famoso. I testi sono a volte preceduti da un commento che ne situa l’origine. Lunghe pagine accorate dedica Jouvet alla ricerca del senso della propria scelta d’attore, dalla quale dipende l’arte teatrale. Da quell’intelligenza viene il valore trasfuso nell’opera, da intuizione a spettacolo compiuto, come del resto si era appreso dagli scritti già pubblicati in Témoignages sur le théâtre (1952) e Le comédien désincarné (1954), alla base dei rari studi italiani divulgativi (cfr. S. De Matteis, Louis Jouvet. Elogio del disordine, Firenze, La casa Usher, 1989).  

Nell’accogliere una missione impellente e quindi nel métier che la realizza, interviene una religiosità evidente: «Dans cette generosité, cette charité pour le personnage, l’oubli de soi-même pour le personnage. […] La seule chose réelle avant la réalité de la Communion des Saints, c’est cette amitié des âmes, cette seule sortie possible de notre moi» (tomo I, p. 119; tomo II, p. 40). La dedizione al personaggio è essenziale della condizione dell’interprete. La scelta di una via rigorosa per incarnarlo, se non chiede le rinunce della religione, impone però doveri morali altrettanto vincolanti. Lo scopo sarà raggiungere la «communion théâtrale», poiché personaggi come Alceste, Dom Juan, Hamlet, «ont besoin de toi… non pas pour s’éprouver eux-mêmes vivants […]. Ils ont besoin de singeries, de grimaces de ton humanité pour exprimer leur humanité supérieure, ces souffles du sentiment et de l’âme dont ils sont faits» (p. 171).

Modo per confermarsi nel proposito, è l’invenzione della Lettera del personaggio all’attore, quale sprone a un dialogo incessante e impegnativo (pp. 166-167). Jouvet avverte perenne la dualità dell’attore, «supérieur ou inférieur, aux autres exécutants, on constate tout à coup qu’il est double» (T. I, p. 27). Così insegue sempre le due definizioni di acteur e di comédien, che nella sua sensibilità si distinguono e si completano, senza esaurirsi. Cura la voce per un’Enciclopedia (1935) alla quale torna più volte con passione, cercando formulazioni e approssimazioni più precise dello stesso oggetto: «Incarné comme l’acteur ou désincarné comme le comédien» (p. 373); oppure: «Le comédien est actif, l’acteur est passif» (p. 382). Il rapporto con il personaggio risulta così continuo. La via relativamente facile per risolverne la casistica non lo esime dal compito ideale: «Leur incarnation spirituelle, la seule qui importe pour moi, est un phénomène dont l’imagination fait frisonner» (p. 385).

Le annotazioni del tomo secondo riguardano l’approccio pratico ai mestieri della scena. Vi insiste Brisson, nel Préface (Les deux Jouvet, 1952): «Il aima, il aimait son art comme on affectionne un outil. Chez Copeau, il pratiquait tous les métiers: régisseur décorateur, magasinier, tapissier rafistoleur d’objets, et on le trouvait le plus souvent sur une échelle, en cotte bleue, les clous aux dents» (p. 9). Pure nel suo discorso, attento alla totalità del fenomeno, non mancano le questioni teoriche a confronto con la meta operativa. Un testo basilare si ritrova (era uscito nel 1921) in La technique du Vieux-Colombier, esemplare della competenza in scenotecnica acquisita da esperienze e princìpi storici, affrontati ad esempio nello studio su Nicolò Sabbatini. Lo conferma Copeau metteur en scène de Molière, nelle clausole tratte dal maestro che definiscono gli orizzonti comuni e quelli precipui dell’allievo di talento: «Le tréteau est déjà l’action, dit Copeau, il matérialise la forme de l’action» (p. 131).

Ancor più stupisce la conversazione con una studentessa che chiede consigli per una tesi di laurea. Il soggetto problematico è Sur la psychologie du spectateur (p. 159) e la giovane ricercatrice interviene con puntualità e profondità in argomenti che coinvolgono il maestro e lo trascinano a dialogare con lei ad armi pari. Si nota impressionante la differenza di rigore e di profondità, nella scrittura di memoria e di pensiero, rispetto a vicende analoghe di personalità odierne pure eminenti: stile e prospettive caratterizzano un linguaggio “altro” e fanno rimpiangere una sensibilità forse irrecuperabile. L’autore riprende valori inziali, in Théâtre et spiritualité: «Le théâtre forme élevée, forme supérieure du sentiment de l’amour […]. L’Église est dans un sens un théâtre supérieur» (p. 439) con uno scrupolo di fedeltà definitiva agli ideali. I numerosi Allegati propongono punti di vista esterni, testimonianze significative di apprezzamenti altrimenti trascurati o perduti.



di Gianni Poli


La copertina

cast indice del volume


 
Tomo II




 
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