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Antonin Artaud

Écrits sur le théâtre. Fragments choisis et présentés par Monique Borie


Besançon, Les Solitaires Intempestifs, 2022, 128 pp., euro 14,00
ISBN 978-2-84681-627-4

Nella scelta degli Scritti artaudiani, Monique Borie si basa su alcuni criteri pregiudiziali, se pure legittimi, motivati e coerenti. Certo, rispetto all’opera completa, risultano pochi e parziali gli esemplari proposti, tendenti a preferire, quali orientamenti fissi e sicuri, più le fonti culturali arcaiche e remote che non quelle della riconosciuta tradizione poetica occidentale. La visione artaudiana «se reclame d’une logique à laquelle, selon lui, seuls les poètes dans la culture occidentale ont eu accès, mais qui a existé dans le passé perdu de cette culture et ne s’est maintenue que sur son versant secret et ésotérique, dont les poètes, justement, temoignent» (p. 11). Borie è inoltre convinta che il viaggio in Messico (anni Trenta) abbia confermato nel poeta del teatro idee analoghe a quelle che avrebbe tratto da un viaggio in Oriente. Oriente che Antonin Artaud, con sensibilità alla “metafisica”, aveva identificato nelle danze balinesi viste nel 1931.    

«Adulé ou rejeté, Artaud n’a jamais laissé indifférent» (p. 15), nota la curatrice del volume Monique Borie, con impressione vera e sincera, ma forse ovvia. Meglio sottolineare invece le conseguenze della priorità del bisogno espressivo, corporalmente poetico, sul senso della lotta intellettuale e sull’intelligenza che dell’opera relativa potevano elaborare i posteri più coscienti e responsabili. Mentre i maestri della pratica scenica novecentesca hanno lasciato metodi e modelli, per la conservazione delle loro concezioni, non ne ha curato Artaud, nell’inseguire contraddizioni e paradossi più che teorie funzionali. La studiosa individua le risposte dei più sensibili contemporanei successori, ma non propriamente eredi, quali Brook e Grotowski, suggerendo possibili debiti e probabili tendenze comuni.

La collocazione e la consistenza statistica dei testi pare importante per misurarne l’effetto valutativo. Nel totale di cinquantadue campioni, sei provengono dagli anni Venti (tempo dei “teatri” realizzati), quarantuno dagli anni Trenta – decennio di assimilazione mitologica e di elaborazione teorica (di cui nove brani tratti da Héliogabale) – e soltanto cinque sono frutto dell’esperienza finale. Eppure quel momento contiene l’invenzione del neo-linguaggio, la “scrittura per analfabeti”, le “sillabe d’invenzione” e le glossolalie – tutti indizi di creatività oltre le convenzioni –, che motiverebbero fra l’altro il superamento del surrealismo storico e la liquidazione della letteratura tout court. Mancano indizi sulla ricerca per la ricostruzione di un corpo autonomo, come ne dà Il rito del Peyotl (1936), che pure Borie aveva analizzato in Antonin Artaud. Le théâtre et le retour aux sources (Paris, Gallimard, 1989). Non s’incontrano i testi dei “poemi della voce”, decisivi per la valenza – sostitutiva, innovativa – rispetto all’ipotesi del “teatro della crudeltà”.

I rinvii agli originali, pure necessari, chiudono un volume che mostra difficoltà nell’equilibrare materia e pensiero così discontinui e diversi. Concentrato sugli scritti degli anni Trenta, non si avvale della verifica dei novissimi Van Gogh le suicidé de la société, Artaud-le-Mômo, Pour en finir avec le jugement de dieu, così alieni da mire teoriche ed estetiche, testimoni vivi e in fondo insondabili di una personalità fattasi essa stessa opera vivente.



di Gianni Poli


La copertina

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