Nella scelta degli Scritti
artaudiani, Monique Borie si basa su alcuni criteri pregiudiziali, se
pure legittimi, motivati e coerenti. Certo, rispetto allopera completa, risultano
pochi e parziali gli esemplari proposti, tendenti a preferire, quali orientamenti
fissi e sicuri, più le fonti culturali arcaiche e remote che non quelle della riconosciuta
tradizione poetica occidentale. La visione artaudiana «se reclame dune logique
à laquelle, selon lui, seuls les poètes dans la culture occidentale ont eu
accès, mais qui a existé dans le passé perdu de cette culture et ne sest
maintenue que sur son versant secret et ésotérique, dont les poètes, justement,
temoignent» (p. 11). Borie è inoltre convinta che il viaggio in Messico (anni
Trenta) abbia confermato nel poeta del teatro idee analoghe a quelle che avrebbe tratto da un
viaggio in Oriente. Oriente che Antonin Artaud, con sensibilità alla
“metafisica”, aveva identificato nelle danze balinesi viste nel 1931.
«Adulé ou rejeté, Artaud na
jamais laissé indifférent» (p. 15), nota la curatrice del volume Monique Borie, con impressione vera e
sincera, ma forse ovvia. Meglio sottolineare invece le conseguenze della priorità
del bisogno espressivo, corporalmente poetico, sul senso della lotta
intellettuale e sullintelligenza che dellopera relativa potevano elaborare i
posteri più coscienti e responsabili. Mentre i maestri della pratica scenica
novecentesca hanno lasciato metodi e modelli, per la conservazione delle loro
concezioni, non ne ha curato Artaud, nellinseguire contraddizioni e paradossi
più che teorie funzionali. La studiosa individua le risposte dei più sensibili contemporanei
successori, ma non propriamente eredi, quali Brook e Grotowski,
suggerendo possibili debiti e probabili tendenze comuni.
La collocazione e la consistenza statistica
dei testi pare importante per misurarne leffetto valutativo. Nel totale di cinquantadue
campioni, sei provengono dagli anni Venti (tempo dei “teatri” realizzati), quarantuno
dagli anni Trenta – decennio di assimilazione mitologica e di elaborazione
teorica (di cui nove brani tratti da Héliogabale) – e soltanto cinque sono frutto dellesperienza finale. Eppure quel
momento contiene linvenzione del neo-linguaggio, la “scrittura per analfabeti”,
le “sillabe dinvenzione” e le glossolalie – tutti indizi di creatività oltre le
convenzioni –, che motiverebbero fra laltro il superamento del surrealismo
storico e la liquidazione della letteratura tout court. Mancano indizi sulla
ricerca per la ricostruzione di un corpo autonomo, come ne dà Il rito del
Peyotl (1936), che pure Borie aveva analizzato in Antonin Artaud. Le
théâtre et le retour aux sources (Paris, Gallimard, 1989). Non sincontrano
i testi dei “poemi della voce”, decisivi per la valenza – sostitutiva,
innovativa – rispetto allipotesi del “teatro della crudeltà”.
I rinvii agli originali, pure necessari, chiudono un volume che mostra
difficoltà nellequilibrare materia e pensiero così discontinui e diversi.
Concentrato sugli scritti degli anni Trenta, non si avvale della verifica dei novissimi
Van Gogh le suicidé de la société,
Artaud-le-Mômo, Pour en finir avec le jugement de dieu, così alieni
da mire teoriche ed estetiche, testimoni vivi e in fondo insondabili di una
personalità fattasi essa stessa opera vivente.
di Gianni Poli
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