Si apre con unimmagine suggestiva laccurato volume di Babette Bohn dedicato alle artiste felsinee. In un anonimo disegno bolognese conservato al Louvre è raffigurata una donna intenta a ritrarre un modello maschile; la sua espressione non è ravvisabile poiché rivolge la schiena allo spettatore, mentre è visibile sopra la sua spalla sinistra il volto delluomo ritratto, che grazie a lei sta lentamente prendendo forma sulla tela. Il foglio – spesso erroneamente attribuito ad Annibale Carracci – ribalta le tradizionali relazioni “creative” tra maschile e femminile e offre un originale punto di vista sulle inusuali opportunità che la città emiliana riservò a quelle donne che, tra Quattro e Settecento, decisero di intraprendere la carriera artistica. Lunicità della situazione bolognese era già stata precedentemente notata – penso ad esempio allo studio di Germaine Greer su The Fortunes of Women Painters and Their Work (1979) –, ma Bohn è forse la prima a dimostrare la concretezza storica del fenomeno attraverso puntuali ricognizioni archivistiche che le hanno permesso di comprendere la sua effettiva dimensione nella lunga durata; ricostruire il successo delle artiste bolognesi anche fuori dai confini cittadini; chiarire le loro differenti specializzazioni (non solo pittrici, ma anche scultrici, incisori, disegnatrici); integrarne le biografie; approfondire un aspetto fino ad oggi trascurato come quello della loro formazione, che non di rado avvenne a contatto con maestri esterni alla famiglia; infine, rintracciare le sorprendenti commissioni pubbliche da esse ottenute (ineguagliate in Europa). Concorsero a creare un clima favorevole anche componenti sociali e culturali come la presenza dello Studio e di importanti ordini religiosi che contribuirono a creare una rete di potenziali committenti e mecenati e a promuovere lalfabetizzazione femminile e la loro conseguente professionalizzazione.Un tratto di identità culturale intuito già dai contemporanei che, nel tratteggiare le biografie artistiche delle concittadine, sentirono lesigenza di trovare nuove formule che superassero la semplice inclusione simbolica e lelogio di maniera alla loro castità, alla bellezza e alle abilità musicali – in linea con quella che veniva considerata una virtuosa educazione femminile – a discapito di una seria considerazione delle loro opere. Come già rilevato da Fredrika Jacobs (Defining the Renaissance “Virtuosa”, 1997), raramente alle donne venivano riconosciute capacità dinvenzione e sprezzatura, ma piuttosto delicatezza e diligenza desecuzione. Un modello proposto in primis da Vasari, che nelledizione delle Vite del 1550 prese in considerazione la sola Properzia de Rossi e in quella del 1568 aggiunse rapide considerazioni su altre sei artiste, senza dedicare a nessuna una biografia autonoma. La stessa scultrice bolognese è inserita in un più ampio discorso sulleccellenza delle donne e le vengono riconosciute non comuni doti nelle “cose di casa”, nel canto e nella musica. Solo in conclusione Vasari sottolinea la pazienza (dote femminile) che lartista aveva dimostrato nel realizzare i suoi noccioli intarsiati, trascurando opere di maggiore impegno, come i rilievi in marmo che le erano stati commissionati per decorare la basilica di San Petronio. Un modello riproposto dal veneziano Carlo Ridolfi per la biografia di Marietta Robusti, figlia di Jacopo Tintoretto (1648), ma si pensi anche alla morbosa attenzione generalmente riservata alla violenza subita da Artemisia Gentileschi che mette in secondo piano i suoi lavori.
Ben diverso latteggiamento di Carlo Cesare Malvasia nei confronti di Lavinia Fontana. Nella Felsina pittrice del 1678 il bolognese riserva ampio spazio alle sue creazioni artistiche – in particolare ai ritratti e alle pale daltare – e ai suoi prestigiosi committenti e non esita a ricordare che la pittrice era un membro onorario della prestigiosa accademia romana di San Luca. Unimpostazione mantenuta anche nelle oltre ventotto pagine dedicate a Elisabetta Sirani in cui, alla dettagliata descrizione dellattività della pittrice, si accompagna lelogio di Bologna come centro artistico di primaria importanza anche grazie alle creazioni delle sue donne. Non solo. Malvasia accosta larte della Sirani a quella di Guido Reni e non può esimersi dal descrivere i sontuosi funerali organizzati per la donna in San Domenico, che per certi aspetti possono essere accostati a quelli esemplari di Michelangelo a Firenze e Agostino Carracci a Bologna.
Accertata dunque la validità storica di quello che viene definito «The Bolognese Phenomenon» (p. 1), Bohn articola la sua trattazione in due parti. La prima è dedicata a Context, Biography, Evolution. Dopo aver evocato alcune celebri letterate, erudite e religiose bolognesi – tra cui la beata Caterina Vigri, scrittrice, musicista e pittrice – lautrice approfondisce alcuni case studies, tra cui Maria Oriana Galli Bibiena, appartenente alla celebre famiglia di architetti-scenografi. La seconda, Pattern, esamina i key factor del successo delle artiste felsinee, tra cui lo spiccato interesse dimostrato da mecenati e collezionisti, nonché le capacità di autopromozione delle artiste, anche attraverso la proposta di ritratti. Celebri quelli di Fontana – basti citare Autoritratto alla Spinetta (1577), Autoritratto nello studiolo (1579) e Autoritratto come Giuditta (1601) – e della Sirani come Allegoria della Pittura (1658).
Chiudono il volume alcuni utili strumenti di lavoro. Nella prima Appendice sono stilate, in ordine alfabetico, sintetiche schede biografiche di tutte le artiste attive a Bologna dal XV al XVIII secolo. Quando disponibili, vengono forniti il nome da nubile e da sposata, le date di nascita e di morte, la specializzazione, i maestri e le principali fonti che le riguardano, lelenco delle opere. Seguono lo spoglio degli inventari sette-ottocenteschi che citano i lavori di Lavinia Fontana e di Elisabetta Sirani e unutile Bibliografia, che registra anche alcuni manoscritti inediti.
di Lorena Vallieri
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