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Letterati, artisti, mecenati del Seicento e del Settecento. Identità culturali tra Antico e Moderno

A cura di Michela di Macco

Firenze, Olschki, 2020, 219 pp., euro 35,00
ISBN 978 88 222 6735 1

Il terzo volume della collana “Quaderni delle borse di alti studi e dei premi” della Fondazione 1563 per l’arte e la cultura – curato da Michela di Macco – affronta un tema centrale e di lunga durata nel pensiero europeo: la dialettica tra antico e moderno, qui indagata in un’ottica interdisciplinare attraverso alcuni significativi esempi del Seicento e della prima metà del Settecento. I cinque contributi sono l’esito di altrettante ricerche condotte dai vincitori di un bando promosso nel 2014 nell’ambito del Programma di Studi sull’Età e la Cultura del Barocco avente per titolo Antico-Moderno. Parigi, Roma, Torino 1680-1750, che ha portato anche all’ideazione della bella mostra Sfida al Barocco. Roma, Torino, Parigi 1680-1750, allestita nella Citroniera juvarriana della reggia di Venaria dal 30 maggio al 20 settembre 2020.

L’esposizione «rendeva percepibile come la scelta, la sensibilità e la riappropriazione interpretativa dei modelli antichi […] facessero emergere la sfida lanciata dagli artisti nei confronti di quel passato tanto celebrato quanto ingombrante» e dimostrava «il progressivo distanziarsi» degli italiani «che a Roma facevano tesoro del confronto con quella stupefacente pluralità di modelli mentre lo sguardo dei francesi si apriva in altre direzioni, rivolgendosi a Venezia e ai maestri del Nord» (p. X). Tra i primi Giovanni Benedetto Castiglione detto Grechetto (1609-1664), alla cui formazione è dedicato il saggio di apertura del volume, a firma di Giacomo Montanari.

Strettamente legato al vivace milieu culturale genovese, l’artista dimostrò sin dalle prime prove un sorprendente aggiornamento sulle più avanzate novità letterarie e filosofiche del tempo. Indubbi sia i suoi precoci contatti con l’ambiente romano di Cassiano Dal Pozzo e dell’accademia dei Lincei e con la raffinata ed erudita cerchia di intellettuali che ruotava attorno ai Barberini; sia le forti suggestioni ricevute da Nicolas Poussin, vicine al sincretismo religioso propugnato dai Gesuiti: «un contesto ideale per la genesi delle aspirazioni e del linguaggio criptico e filosofico del Castiglione» (p. 4). A queste istanze già note, Montanari ne aggiunge di inedite legate al sinora meno documentato primo momento genovese e al suo alunnato presso Giovan Battista Paggi (1625-1627). La lettura dell’inventario della casa-studio del nobile – dove sono elencati, accanto agli strumenti dell’artista, oltre duecento volumi – permette di formulare nuove ipotesi sull’origine delle peculiari scelte iconografiche di Castiglione e di meglio «comprendere un quadro intellettuale all’interno del quale inserire l’intero “sentimento artistico” del pittore genovese» (p. 5).

Valeria di Giuseppe di Paolo parte dalla creazione della succursale romana dell’Accademia Reale di Francia – inaugurata l’11 febbraio 1666 – e dagli statuti che ne regolavano il funzionamento e le finalità per riflettere sul significato più profondo dell’esercizio della copia. Se inizialmente quest’ultimo fu pensato come il principale strumento di attuazione del progetto di rinascita delle arti francesi in funzione di un linguaggio nazionale, si rivelò presto un’arma a doppio taglio. I pittori furono costretti, durante l’esperienza formativa del Grand Prix, a imitare fedelmente Raffaello e pochi altri maestri attraverso una tecnica meccanica che lasciava poco spazio alla creatività e all’innovazione, tanto da far dubitare dell’efficacia del soggiorno romano. Diverso il discorso per gli scultori, cui venne lasciata maggiore libertà interpretativa: potevano infatti rielaborare e “correggere” autonomamente i propri modelli tramite studi e disegni, con ben più proficue ricadute sulla loro formazione.

Alla Francia e alla Académie Royale è intitolato anche lo scritto di Alessia Rizzo sull’attività dei pittori della cosiddetta “Generazione 1700”, di cui sono evidenziate le differenze di cultura e di stile in relazione ai differenti luoghi e contesti di formazione, ma anche il percorso di aggiornamento e le istanze che, da Roma, ne influenzano la produzione.

Il denso contributo di Claudia Tarallo è incentrato su un tema apparentemente marginale: quello dell’ultima stagione del poema eroico, che sul finire del Seicento entrò in una crisi che appare irreversibile, sancita anche dalla scarsa qualità di una produzione comunque copiosa. La studiosa dimostra come la narrazione in ottave restò di fatto il genere più illustre della poesia italiana del tempo, anche se nelle numerose, “effimere” prove epiche si sommarono da una parte la difficoltà di rispettare il rigido dettato teorico e poetico tassiano, dall’altra quella di proporre elementi di novità soprattutto dal punto di vista tematico.

Di particolare interesse le pagine di Sara Piselli sull’attività del cardinale Pietro Ottoboni, creatore di un vero e proprio “laboratorio” in cui pittura, scultura, musica e teatro concorrevano nella creazione di un comune gusto artistico e rispondevano a precise strategie culturali. Durante i quarant’anni in cui il nipote di Alessandro VIII ricoprì la carica di vice cancelliere fecero parte del suo circolo artisti e scenografi del calibro di Filippo Juvarra, Carlo Fontana, Angelo de Rossi e Francesco Trevisani, nonché musicisti come Arcangelo Corelli e Alessandro Scarlatti che contribuirono alla definizione di un linguaggio basato sui concetti di “buon gusto” e “buon senso”.




di Lorena Vallieri


La copertina

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