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Koffi Kwahulé

Close up. Arletty… Comme un œuf dansant au milieu des galets. Boxer


Montreuil, Éditions Théâtrales, 2021, 106 pp., euro 14,90
ISBN 978-2-84260-859-0

Con un trittico di atti unici, dal soggetto e linguaggio sconcertanti (le battute sono in versi), l’autore africano francofono Koffi Kwahulé prosegue un’opera prolifica (2017 e 2019) dalla teatralità poetica affascinante e impegnativa. Le strutture sorgono da un immaginario tra il subconscio onirico e il ritmo affabulativo, da traumi psicologici fecondati dalla fantasia e con essa interpretati. Il vocabolario accende surrealisticamente la realtà colta nel presente e spiegata dal passato di mitologie anche ancestrali.

In Close up vige la tecnica dell’immagine televisiva, secondo un montaggio frammentato in sequenze e primi piani: “close up” è appunto l’ingrandimento del dettaglio rispetto all’insieme dei personaggi e dell’ambientazione. Il protagonista si presenta subito come un delinquente patologico, un serial killer mosso da pulsioni sessuali distorte e da presunte aspirazioni artistiche. Si compiace dei suoi crimini perché ambisce alla perfezione dell’atto mortifero elevandolo a opera d’arte. Ossessionato dal bisogno di un riconoscimento sociale, nutre un sogno di celebrità illimitata, che soltanto un film di Hollywood potrebbe garantirgli: «Je suis venu vous offrir mon œuvre / afin que vous en fassiez un film» (p. 42).

Da uno stimolo visivo nasce l’emozione intima, descritta nella fisiologia anche sessuale. Forse l’antefatto, la ferita iniziale sono nella provocazione del fratello che lo invita a godere la bellezza della sua amica. La reazione è sofferta come per un doppio incesto, che fonde l’attrazione per la ragazza con l’ammirazione per la madre, che in bikini gli sembra “nuda”. Il turbamento ha crescendo e pause di una musicalità inseguita nel ritmo e nell’esposizione del tema con le sue variazioni. Si prolungano le scene dell’apprezzamento della sensualità femminile, in sfumature sofisticate di sensibilità o lampi rivelatori degli istanti d’acme del piacere. La voce di Ézéchiel si moltiplica in quella degli interlocutori, magari i poliziotti che lo braccano, impotenti a scoprirlo dagli indizi sparsi ad arte. Fra gli elementi eterogenei c’è la musica, sia ritornello di canzone, sia il salmodiare polifonico del Miserere di Gregorio Allegri, la citazione allusiva a passi evangelici distolti dalla connotazione della fede e le tecniche del giornalismo mediatico. Scrittura scientemente sincopata per infondere suspense a un “giallo” in parodia, che però rinvia a condizioni allarmanti. Canterellando «I smell the blood of a little girl» (p. 21), l’eroe ha la mano tremante. Però, alla fine, decide: «J’arme, je vise et je tire» (p. 41).

Un’attrice in camerino si prepara a recitare il ruolo di un’attrice francese di cinema e teatro: così comincia la storia, reinventata su quella “vera”, della famosa Arletty (1898-1992). Kwahulé la rappresenta in circostanze e inquadrature dichiaratamente ispirate al film Les enfants du paradis (Marcel Carné e Jacques Prévert, 1945) che Arletty interpretò da protagonista. Così si presenta: «Je m’appelle Arletty, / née Léonie Maria Julia Bathiat, / et je suis le baiser de la vierge et de la câtin / une femme dangereuse donc» (p. 47).

Gli episodi della sua carriera avventurosa riemergono illuminati dalla consapevolezza forte e coerente sempre mantenuta nelle scelte artistiche ed esistenziali decisive. Al centro, l’amore per Soehring, ufficiale tedesco dell’occupazione, causa di uno scandalo che le costerà l’arresto (1944), motivato dall’essere ritenuta «individu dangereux» (p. 49) per la sicurezza nazionale. L’autore insiste sull’estremismo del personaggio che contagia anche la sua interprete: la vocazione di Arletty a un sentimento assoluto, motivo di rinunce e persecuzione, corrisponde nell’attrice alla scoperta della virtù liberatoria dell’arte teatrale.

Più leggendario che documentario, il testo composito di vari generi arricchisce di pathos e di ironia un personaggio abnorme ed esemplare per stile di vita e comportamento. Nella finzione drammatica, è spinto a conseguenze truci e paradossali, quasi fossero a tratti autentiche le voci sul caso che alimentano l’opinione pubblica. Nella lunga sequenza dell’interrogatorio, l’inquisitore manifesta curiosità morbosa ed esasperazione dell’accusa per l’impassibilità e la sicurezza dell’imputata. La donna subisce violenze, anche fisiche – in un incubo che lei stessa denuncia falso (effetto dei “si dice”, però plausibile, in quei frangenti) e dal quale esce glorificata. Altro sogno ossessivo, il pubblico che la fischia, la insulta e dà fuoco al teatro. In alcune allusioni alla fede cristiana, l’autore smaschera l’ipocrisia sottesa a tanti giudizi sull’eroina, che confessa: «Je suis athée, Dieu merci, mais j’essaie d’être catholique. […] Aimez-vous les uns les autres. […] Juste chevaucher cette impossibilité. A cœur joie. J’aime me croire catholique, c’est-à-dire, le nœud de toute la sensualité du monde» (pp. 72-73). Nella prestazione, che richiede un’attrice superlativa, si è da poco misurata Julia Leblanc-Lacoste in uno spettacolo creato nel febbraio 2021.

Ancor più dettato dalla musicalità è il match poetico combattuto in Boxer, ove un pugile donna, atleticamente inferiore all’avversaria, si costringe a un’eroica opposizione a oltranza. Sono lunghe riprese con crolli ripetuti e sforzi sovrumani per rialzarsi. Senza alcuna presunzione epica di mimare seriosamente lo sport del pugilato: un’ennesima analogia della situazione psicologica e fisiologica con quella più largamente esistenziale. Anche qui l’eccesso metaforico – con andamento impressionistico, se non “espressionista” della scrittura – induce immedesimazione nel lettore, con mezzi anche tipografici, per disegnare l’evento che dal ring trasmette violenza al pubblico. In mezzo, la figlia del boxeur assiste quale patetica testimone e antagonista.

Nel clima di empatia da stadio, un dialogo si instaura tra vincente e perdente, oltre che tra madre e figlia. Lo strumento di analisi è nella proiezione del pensiero fatto voce trattenuta. Quando la scarica di colpi incassata a un certo punto provoca la prossimità al ko, la donna, a terra tramortita, riesce a rialzarsi e a salvarsi nel delirio. Il pubblico urla: «Tue-la, tue-la, tue-la» (p. 98) e la combattente attraversa la sua storia di bambina che, dalla nascita in un villaggio africano, risale al miraggio di conquista della corona mondiale. La figlia le accorda l’onore della sconfitta. E l’esito della gara si trasforma finalmente in danza.



di Gianni Poli


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