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Richard Peduzzi

Je l’ai déjà joué demain


Arles, Actes Sud, 2021, 224 pp., euro 25,00
ISBN 978-2-330-15342-7

Scopriamo con questo libro l’insolita, raffinata sensibilità del Richard Peduzzi narratore, avendone apprezzato l’opera scenografica in tanti spettacoli e allestimenti espositivi. Il nuovo aspetto si rivela quando l’autore organizza i suoi ricordi – dalle impressioni profonde alla palingenesi creativa – in tempi e spazi nuovi, con rielaborazione fantastica. È soprattutto etica l’esigenza di inseguire e interpretare l’occasione fortunata, la chance che gli appariva irraggiungibile, nell’infanzia tormentata trascorsa in una Le Havre deturpata dalla guerra. Là dove riceve cure dai nonni materni, quando la madre è costretta a lasciarlo; poi, da quelli paterni (cfr. Sur des ruines, pp. 19-24), quando più grandicello li aiuta nel loro lavoro. Finché la madre muore lontana da lui.

Ma sono gli amici scomparsi, evocati nel Prologo, a suscitare la sua voce sommessa e man mano più nitida che ricostruisce tanti profili intimi e affettuosi. Saranno la Toscana e la Roma in cui dirigerà villa Medici a fornirgli il panorama naturale e culturale sul quale campire la propria avventura non soltanto artistica. «À un certain moment de sa vie, si on ne veut pas participer au naufrage de la veillesse, on doit retrouver une enfance, chercher indéfiniment cette terre nouvelle» (p. 12). Ancora l’Italia, la Portofino dei turisti di lusso, negli anni Settanta offre luogo e momento dell’incontro con la donna, scesa da una barca nel porticciolo, che gli sarà compagna nella vita.

Il passo dalla strada al teatro, Richard lo compie per tappe faticose. Mutuata dal padre la voglia di dipingere, giunge a Parigi per frequentare la scuola di disegno di Charles Auffret. «Je côtoyais deux mondes contradictoires. Celui de la rue m’entraînait vers des souterrains dangereux […] celui de Charles Auffret me tirait vers le haut» (p. 37). Insoddisfatto, accetta il consiglio del costumista Jacques Schmidt, si presenta a Patrice Chéreau, animatore del Théâtre de Sartrouville, e l’incontro risulta decisivo per entrambi.

Il racconto subisce salti e interruzioni. Disagio si avverte in partenza, nella volontà di chiarire l’oscurità sorta nell’infanzia, le impressioni traumatiche di allora e prendere coscienza di dover decidere del proprio destino: dopo esperienze di droga, recupera la padronanza d’un gesto creativo che lo gratifica dopo un’attesa dolorosa. Oltre un presagio di avvenire incerto e rischioso, minacciato da malattia incombente, apre una ricerca ricca di tanti ritrovamenti, nel «chercher un trésor dans tout ce que j’aperçois» (p. 51). Il giudizio sul lavoro richiesto dagli spettacoli in prova, nelle paure e gli entusiasmi, mostra il metodo con cui affrontare i problemi e scegliere le soluzioni concrete, più che il bisogno di appagarsi nel successo. Si incontrano così lavori impegnativi: la prima scenografia firmata, Toller di Tankred Dorst (1973) al Piccolo Teatro di Milano, e la sequenza condotta da Chéreau nelle prove memorabili di La Dispute (Marivaux, 1973), Peer Gynt (Ibsen, 1981), Combat de nègre et de chiens e Quai Ouest (Koltès, 1983 e 1986), Hamlet (Shakespeare, 1988), Phèdre (Racine, 2003). E opere musicali: dal famoso Der Ring di Wagner (1976) e Lulu di Berg (1979) a Wozzeck dello stesso Berg (1992) ed Elektra di Strauss (2013).

Nel libro (i cui disegni non illustrano tali capolavori) prevale la testimonianza schietta del creatore, sottratta a qualsiasi compiacimento sul proprio contributo e del quale restano piuttosto i dubbi o le ansie, che lo inducono a un confronto severo con sé stesso, nella ricerca dell’essenziale. L’insicurezza precoce e irrisolta propaga il senso di una corsa obbligata verso la morte, condivisa con l’homme pressé, com’era definito il regista compagno da giovane. Già in comunione estetica, quando Patrice gli propone di lavorare a Dom Juan di Molière, lui accetta subito: «J’ai saisi cette chance au vol. […] Mes palais en ruine à même les quais, mélangés aux architectures industrielles, l’impressionnaient» (p. 50). Nasce uno stile, riconoscibile in Le Massacre à Paris (1972) di Marlowe, meno in Les Contes d’Hoffmann (1974) di Offenbach, dove però emergono «les souvenirs de mon enfance au Havre […] juxtaposition de palais de la Renaissance en ruine, d’architectures industrielles […] un ciel étoilé peint par Dürer» (p. 53). 

Maturando, Richard si convince che il décor sia un «acteur à part entière qui participe au jeu». Ne applica le conseguenze anche collaborando con Luc Bondy: per Roi Lear, ad esempio, il regista accumula accessori che lo scenografo tende a eliminare, spingendosi «vers l’abstraction, la semplification […]. Le vide a toujours été ma préoccupation majeure» (pp. 57-58). In Le Conte d’hiver accosta nell’immaginazione il Globe e il Teatro Farnese e vi vede «la Bohème prise dans les brosses tourmentées de Goya» (p. 57). Con lo stesso regista, seguiranno felicemente molti allestimenti di opere liriche.

 Come Chéreau gli aveva mostrato la funzione della machine-à-jouer, così Peduzzi sintetizza nella cage de scène lo spazio necessario all’azione. Evocatrice della morte, la cage «en nous donnant l’illusion de liberté […] dans la cage de scène Patrice et moi mettions toutes nos pensées» (pp. 55-56). Particolarmente faticoso, l’Hamlet al Festival d’Avignon del 1988, durante il quale soffre di un’emorragia interna. Le indagini cliniche scoprono l’affezione da epatite C. Più tardi, per il cancro affronterà il trapianto del fegato. La malattia di Patrice allo stesso organo, Richard la sente quasi segno di una crudele concomitanza di destini. L’agonia dell’amico è raccontata nell’ineffabilità delle parole e nel ricordo più concreto di libri e gesti condivisi. Nell’accavallarsi delle emozioni, la descrizione assume l’esattezza di una diagnosi clinica e, in quel mistero, le parole pur anche poetiche sfiorano appena la realtà.   

L’Epilogo (Bird) è omaggio al jazz, a musicisti tanto amati come John Coltrane, Charlie Parker e Miles Davis, dai quali trae il titolo del libro. L’accesso all’album dei disegni, in appendice, è guidato da Alizée David secondo sensazioni che sorgono dalla familiarità con le tecniche espressive e con il pensiero dell’autore. Le immagini suggeriscono l’enigma e il desiderio e in alcune si colgono allusioni a geometrie di Appia o a sentimenti di Chagall. Quei volumi verticali isolati, a confronto contrastato, paiono quasi segni di un surrealismo umbratile, dal colore sfumato, nel vuoto, nel silenzio definitivo.


di Gianni Poli


La copertina

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