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Vedere la musica. L’arte dal simbolismo alle avanguardie

A cura di Paolo Bolpagni

Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2021, 304 pp., euro 28,00
ISBN 9788836647552

La relazione tra arti visive e arti sonore ha trovato nella mostra Vedere la musica la sua illustrazione più recente ed esaustiva a Rovigo (Palazzo Roverella, aprile-luglio 2021). Il catalogo, disponibile anche come monografia, ne serba la memoria e consente un approfondimento critico prezioso. In premessa, Giovanni Boniolo precisa la problematica epistemologica che investe gli aspetti della conoscenza, dello statuto della musica e del concetto di opera d’arte totale. Ricorda gli antesignani Traité des sensations di Étienne Bonot de Condillac (1754) e De la musique considerée en elle-même et dans ses rapports avec la parole, les langues, la poésie, et le théâtre di M.P. Guy de Chabanon (1785) e invita a verificare le cause del complesso fenomeno inerente al “vedere la musica”.

Sul tema non mancano indagini e il curatore le cita e le discute in una sua “storia” (estesa dal 1880 al 1940) nella quale emergono occasioni e profonde connivenze storiche ed estetiche fra quelle arti. L’antecedente memorabile è indicato nella mostra di Stoccarda del 1985, Vom Klang der Bilder. Die Musik in der Kunst des 20. Jahrhunderts (Il suono della pittura); si raccomandano inoltre i «Quaderni della rassegna musicale» (Einaudi, 1968) e i corsi di Riferimenti musicali nelle arti figurative (1992-1993) di Jolanda Nigro Covre. Un interesse che trova eventi analoghi nelle mostre Sons & Lumières. Une histoire du son dans l’art du XX siècle (2004) e Danser sa vie. Art et danse de 1900 à nos jours (2011), allestite al Centre Pompidou parigino. È il quadro che guida alle dieci sezioni espositive della rassegna e riassume il senso di «un tema che ha segnato fortemente la cultura europea [quello] della corrispondenza e del rapporto fra le arti, insomma dei molteplici scambi tra la musica e le espressioni creative della visualità» (p. 10).

Il Simbolismo, per Bolpagni, rivela dall’inizio i legami nascosti e significativi fra le arti e nello specifico l’influenza della musica sulla pittura. «È con Kandinskij e Klee, però, che la musica diventa davvero centrale, – precisa – facendosi paradigma assoluto di una pittura che vuole liberarsi dal concetto di rappresentazione della realtà fenomenica» (p. 12). Appaiono allora le opere di artisti implicati nell’avventura trasformatrice di forme ed espressioni, quali László Moholy-Nagy, František Kupka, Charles Blanc-Gatti, a cui corrispondono musicisti ispiratori e/o diretti collaboratori, quali Stravinskij, Schönberg, Busoni. Fra i due secoli, quando spiritualità e tecnica si oppongono, nell’agone artistico si raffrontano tante teorie e varianti di pensiero – con Charles Baudelaire e Joris-Karl Huysmans, Gabriele D’Annunzio e Angelo Conti (doctor mysticus) – nelle quali è primario il ruolo della musica, «capace, sola, di rispecchiarsi nell’assoluto, di liberare l’immaginazione e il sogno, di esprimere l’inesprimibile. […] Destinata a divenir meta e modello degli altri linguaggi esteticamente connotati» (p. 19).

Le immagini rappresentative comprendono opere di Lionello Balestrieri, Filiberto Minozzi, Mario de Maria e del francese Paul Ranson, tipico dei Nabis, con L’initiation à la musique (1889). Su Gaetano Previati è specifica la ricerca di Monica Vinardi, che nel pittore riscontra la fiducia nella misurabilità dei fenomeni acustici e visivi e una concezione «in ottica positivista con riferimenti venati di misticismo, se non di esoterico spiritualismo» (p. 26). In certa sintonia con Joséphin Péladan, Previati pubblicava le sue teorie a inizio Novecento. Fra le opere a tal riguardo, Il vento e La danza (1908) e Notturno (1912), ora al Vittoriale degli italiani. Ispiratosi alla musica di Beethoven, Previati aveva partecipato alla mostra della “Secessione” viennese (1902). La produzione grafica del periodo è analizzata da Franceso Parisi. Il baricentro è nell’opera di Max Klinger, autore del “monumento” a Beethoven per la stessa mostra del 1902. Interessante la passione musicale che il famoso incisore nutrì tutta la vita e che influenzò la struttura delle sue composizioni, tipiche del simbolismo mitteleuropeo. L’artista componeva “cicli” in cartelle numerate. Fra le proposte, Accorde (1890) ed Évocation (1891). Tipica del periodo, l’interpretazione di partiture musicali che costituivano serie unitarie di incisioni. Le affinità con i coevi si scoprono in opere di Heinrich Vogeler, Alfred Kubin, Alois Kolb, Maurice Denis, Félicien Rops, in una sequenza ampia ed esemplare.

L’interesse suscitato dalla figura di Wagner e delle sue opere non ha uguali per la bibliografia loro dedicata, tanto che la moda relativa ha potuto definirsi «soffocante» (p. 76) quanto a scritti e riferimenti. Bolpagni attraversa agilmente e acutamente il caso epocale, a partire dalla fortuna francese del compositore. Rinviene nella «Revue wagnerienne» (1885-1888) i motivi di critica su «questa moda culturale, non di rado sfociante in adorazione esteriore» (p. 77). La trama fitta degli incroci sembra spesso esulare dai valori più autentici del musicista e drammaturgo. Mostra il formarsi d’una moda iconografica, «con i tratti d’una mania cultuale», tendente a teorizzare una «pittura wagneriana» (p. 78). Dipinti di Gabriel von Max, Gaston Bussière, Jean Delville e dello scenografo e illuminotecnico Marià Fortuny i de Mandrazo, attivo a Venezia. L’elenco impressionante dei musicofili e dei pittori wagneriani comprende l’insospettabile Vincent van Gogh, che compara «il nostro colore [con] la musica di Wagner» (p. 84).

Benedetta Saglietti segue la nascita del «pluristratificato processo di costruzione del mito» di Beethoven. Nella storia delle opere che lo rappresentano, «secondo molteplici sguardi e plurime concezioni artistiche» (p. 108), più che i contenuti musicali attirano la sua figura e il suo corpo, da subito soggetti dipinti, come nelle prove plastiche e figurative di Giuseppe Grandi (Beethoven fanciullo, 1874) e di Kolb (Questo bacio al mondo intero, 1909).

L’opera lirica italiana, in dialogo con le arti visive, impegna ancora Bolpagni sul lavoro degli scenografi, dei quali lo studioso indaga le idee-guida nelle applicazioni sceniche. Segnala Emanuele Villanis, paradigmatico di un certo clima frizzante ed elegante della Francia fin de siècle, nelle figure di Sapho e Judith (p. 150). Parte vistosa è affidata ai manifesti-programma per gli spettacoli, in cui spiccano i cartelloni di Aleardo Villa. Il saggio di Fabio Benzi rileva nel Futurismo l’intervento della teosofia e delle facoltà paranormali. Segnala l’incontro tra il futurista belga Jules Schmalzigaug (già illustrato in una mostra a Ostenda nel 2016) e gli italiani Balla e Boccioni, fonte di collaborazioni per il teatro, con scambio di idee e progetti tra Schmalzigaug e Balla, per il balletto Feux d’artifice (p. 171). I Manifesti illustrativi del tempo sono di Russolo e di Carrà. La vicenda più complessa è costituita dalla “Secessione” viennese, sancita dalla fondazione della rivista «Ver Sacrum» nel 1897. Movimento al quale si sovrappongono vari ismi, fra cui Dadaismo e Surrealismo (purtroppo qui non documentati per la loro eccezionalità).

Le opere esposte manifestano in genere una «innegabile aspirazione all’opera totale» nella quale il curatore sottolinea l’utopia, tesa a «redimere l’umanità mediante la forza dell’arte» (pp. 191-192). Nel bilancio sull’Espressionismo, si notano le scarse interferenze fra le arti visive e la musica, eccettuato il caso di Schönberg. Gli esiti teatrali invece, nati fra gli artisti del Bauhaus, sono evidenti; come è innegabile l’originalità di Kandinskij anche quale scenografo e costumista. Il Neoplasticismo, da Theo van Doesburg a Mondrian, mostra “drammi cromatici” (con esempi del 1909). Di Moholy-Nagy si apprezzano le sperimentazioni sinestesiche e sonoro-visive tipiche della Scuola di Weimar. Jolanda Nigro Covre esamina l’astrattismo dalla parte dei pittori e nota: «La ricerca di un’arte senza oggetto può considerarsi parallela a quella d’una musica senza oggetto, svincolata dalla subordinazione al “testo”» (p. 206). Tornando a Kandinskij, rievoca la creazione di Quadri di un’esposizione di Mussorskij (1928), dove «l’interpretazione musicale di un’immagine pittorica è a sua volta risolta in strutture pittoriche astratte» (p. 213). La voce del Purismo è assicurata dalla rivista «L’Esprit nouveau» (1918-1925), creazione di Amédée Ozenfant. La trasposizione di opere musicali (da Claude Debussy) in pittura sembra l’impegno maggiore degli adepti del Musicalismo, movimento dimenticato, riesumato dal primo segno, la mostra di Charles Blanc-Gatti a Parigi (1931). L’artista passa poi al cinema anche come produttore per poi riprendere le sue teorie, più volte rimaneggiate e sintetizzate nel saggio Des Sons et des couleurs (prima edizione, 1934): personaggio e opera insoliti, trattati con scienza e un po’ d’ironia da Philippe Jounoud.

Fra le due guerre, la figurazione in Italia rispecchia il rifluire di gusti dalle avanguardie. Fra accordi apollinei e disaccordi panici, Orfeo avrà vinto la tenzone con Pan, secondo la sapienza psicoanalitica del saggio di Alessandra Tiddia. Il trionfo momentaneo della nudità inizia con la tela di Luigi Bonazza, La leggenda di Orfeo (1905) per sfumare nell’estetica del “silenzio” di Piero Marussig, ammiratore di D’Annunzio. La vastità dell’esposizione e la cura dei dettagli rafforzano l’impressione di criteri informativi solidi e coerenti nel verificare sinestesie e corrispondenze feconde fra autori e opere. La Bibliografia è aggiornata al 2020.


di Gianni Poli


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