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Napoli&Rossini: «di questa luce un raggio»

A cura di Antonio Caroccia, Francesco Cotticelli e Paologiovanni Maione

Napoli, Edizioni San Pietro a Majella, 2020, 244 pp.
ISBN 978-88-98528-09-7

Il volume propone una raccolta di saggi firmati da studiosi italiani e internazionali, a cura di Antonio Caroccia, Francesco Cotticelli e Paologiovanni Maione, su aspetti inediti o poco indagati della vita e dell’opera di Gioacchino Rossini e sul rapporto con la città di Napoli.

Paola Avallone e Raffaella Salvemini esaminano il contesto storico-culturale in cui operò l’illustre musicista, delineando rispettivamente le vicende politiche e la delicata situazione economica all’indomani della Restaurazione con il ritorno dei Borbone sul trono partenopeo. Le questioni politiche ed economiche si riflettono anche nell’esperimento della compagnia reale del teatro de’ Fiorentini (1816-1824), gestita dall’impresario Salvatore Fabbrichesi, di cui racconta con dovizia di particolari Alberto Bentoglio.

Cotticelli analizza la drammaturgia napoletana negli anni rossiniani e l’espansione dei centri di spettacolo nella capitale, in particolare al Largo di Castello e alla Medina, tracciando una «topografia della fruizione» (p. 55) che caratterizzava la vita teatrale di Napoli. Il sodalizio tra il musicista e l’impresario Domenico Barbaja è indagato da Paologiovanni Maione e Francesca Seller: mentre il giovane Rossini inconsapevolmente inaugura una nuova epoca facendo breccia su un pubblico diffidente, Barbaja segna una svolta decisiva nell’organizzazione dello spettacolo, ponendosi in dialogo con la città, con il regno meridionale e con l’Europa tutta.

Maria Venuso evidenzia come durante gli anni napoletani del maestro pesarese la danza al San Carlo presenti una realtà composita, intrecciata di elementi mitteleuropei, e sotto certi aspetti all’avanguardia, a livello drammaturgico e formativo nel segno di grandi nomi della storia del balletto ancora in parte trascurati dalla critica. Sulla scorta delle fonti raccolte Paul-André Demierre riflette sulle orchestrazioni napoletane di Rossini, giustificandone la novità e la scrittura «troppo rumorosa» (p. 98) al cospetto di esperienze prestigiose e del differente gusto delle nazioni europee.

Paolo Fabbri evidenzia come le partiture di Johann Simon Mayr, autore di successi quali Medea in Corinto e Cora, e quelle di Rossini ebbero una sostanziale continuità. «Si direbbe che nel cembalo di Mayr s’assida il Genio della divina Musica Italiana, che nella mano tiene il cuore umano, e allontana colla destra dalla composizione le folgori e gli aquiloni della musica d’oltremonte» (p. 102); «Rossini è il solo compositore veramente originale in Italia, e quel ch’è curioso, originale rubando a man salva; ma lo fa in modo che a guisa degli stomaci ciò che prende di non suo lo trasforma in chilo e diventa suo sangue. Sparisce il furto e brilla la proprietà» (p. 106). Il trionfo del pesarese è sottolineato poi da Massimo Fusillo, che ne evidenzia l’innovazione drammaturgica – con la divisione in tre atti e finale tragico – nell’Otello.

Lorenzo Mattei pone in risalto la dimensione performativa delle composizioni rossiniane individuando le strategie melo-drammaturgiche della commedia per musica, prodotta all’inizio dell’Ottocento nei teatri napoletani sulla scia della separazione in due atti tentata – nel secolo precedente – prima da Giambattista Lorenzi e poi da Giuseppe Palomba. Focalizzandosi sull’esordio del maestro a Napoli, Antonio Caroccia mette in rilievo come l’artista seppe farsi amare dal pubblico sin dalle prime recite nonostante resistenze e gelosie locali. «Il Signor Rossini, di cui taluni avranno trovato altra volta strano ignorarsi da noi il merito, trionfa oggi su i primi teatri di questa antica culla della scienza e del genio musicale» (p. 148).

I ricchi apparati documentali della collezione di Masseangelo Masseangeli (1809-1878), custodita presso l’Accademia Filarmonica di Bologna, sono illustrati da Rosa Cafiero e da Marina Marino. Le due studiose propongono nuovi elementi per una diversa contestualizzazione del rapporto tra Rossini e il basso Gian Lorenzo Capranica, curatore dell’archivio musicale della real cappella palatina, alla luce del ritrovamento di un biglietto autografo. Da non trascurare il contributo sugli echi rossiniani a firma di Loredana Palma, che ripercorre la fortuna musicale della stampa periodica degli anni Trenta. Nel 1839 Rossini – ormai riconosciuto genio europeo e «massimo de’ viventi compositori di musica» (p. 188) – rientra brevemente in città suscitando un vasto clamore: «i Napoletani ritroveranno così pel gran Pesarese le splendide corone che allora gli offrirono e che non dovevano appassire giammai» (p. 189).


Chiudono il volume la rassegna a cura di Cesare Corsi di una parte delle musiche relative all’opera Mercadante, conservate presso la biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Majella, e l’approfondimento dell’esperto di organologia Francesco Nocerino su interessi, gusti e preferenze dell’insigne compositore pesarese: violinista, violista, violoncellista, flautista, cornista e fine conoscitore degli strumenti musicali a tastiera. «Mi compiaccio dichiararle che il Pianoforte del Fabricante Johann Fritz di Vienna a lei ceduto […] è quello stesso di cui mi valsi allorquando composi il mio Spartito che per titolo Semiramide: in fede Gioacchino Rossini» (p. 223).



di Stefania Prisco


La copertina

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