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Théâtre/Public, n. 240, juillet-septembre 2021
Krystian Lupa. Espaces


144 pp., euro 16,90

Nella sua consueta articolazione – Entretien, Dossier, Miscellanées – l’ultimo numero della rivista di Gennevilliers è dedicato a Kristian Lupa, poliedrico artista polacco.

Nella lunga Intervista d’apertura di Olivier Neveux a Chiara Mulas e Serge Pey si sviluppa un dibattito attuale sulla provvisorietà d’ogni impresa artistica, richiamando testimonianze di personaggi significativi del secolo scorso. Il nucleo problematico dell’opera della coppia italo-francese è fornito dalla definizione del loro singolare lavoro performativo. Pey ricorda incontri ed esperienze decisivi, quelli con il Living Theatre, André Benedetto, Armand Gatti e Jean-Jacques Lebel, e sintetizza il senso dei propri happenings nella formula «poésie d’action» (p. 10). Partecipe del movimento “situazionista” di Guy Debord, nota i limiti dell’attuale performance, «devenue un académisme», mentre spera che la sua operazione crei «une situation irrévocable, comme dans une manifestation ou une émeute. Un point de non retour» (p. 10). Di conseguenza si sofferma sul ruolo rivoluzionario di Antonin Artaud e di Jean Genet, avvicinati a Pasolini e Gramsci, per rivalutarli. Mulas svela poi lo scopo non attorico delle sue creazioni: «Dans l’art-action que je pratique l’image et l’acte fonctionnent comme une écriture codifiée. […] Mon corps est un espace de projection pour imaginer un autre réel» (p. 16). Spirito surrealista e crudeltà contestatrice, dunque, per testimoniare le condizioni ataviche delle proprie origini in Barbagia.

Gli studi sul regista e pedagogo Lupa, intitolati Espaces, seguono l’itinerario dell’artista a distanza dall’attribuzione del Prix Europe (Wroclaw, 2009) per puntualizzare «quelques-uns des terrritoires que ce metteur en scène occupe, fait exister au sein du théâtre polonais» (p. 3). Ricompaiono così le esperienze riportate in Utopia. Lettres aux acteurs, libro già riassuntivo di storia ed estetica personali, mentre si consolida la memoria critica su un decennio di spettacoli, da Factory 2 (2008), La Cité du rêve (2012), Des arbres à abattre (2014), Le Procès (2017), fino a Capri, l’île des fugitifs (2019) e Austerlitz (2020).

Gli spazi mentali e operativi essenziali vengono integralmente recuperati e rivalutati nella prospettiva delle ultime creazioni. La valenza “totale” della sua voce si riscontra nei casi singolari e tipici, sia delle realizzazioni sceniche sia dei pensieri decantati negli scritti, fra il diario intimo e la comunicazione di visioni estetiche o relazionali. La specificità degli articoli completa l’itinerario del riformatore della scena nazionale a partire dai campioni della sua avanguardia novecentesca. La rassegna delle opere ultime, di fronte alle tematiche e alle soluzioni originali, evidenzia la continuità del lavoro di Lupa rispetto ai maestri precursori (nonché il legame con la cultura francese) quali Witkiewicz e Gombrowicz, Grotowski e Kantor. Nelle interviste soprattutto, Lupa ridefinisce i suoi rapporti con la letteratura, il cinema e la politica (anche per l’incidenza della pandemia), illustra i processi creativi mediante parole-chiave e immagini ricorrenti. Risale a quando era studente di Belle Arti e torna con la mente al ricercatore di equilibri inediti fra corporeità e immagine artificiale, fra musicalità verbale e armonia ritmica dell’azione.

Si segnalano, fra gli articoli, i due contributi complementari di Agnieszka Zgieb centrati su Capri, di cui si analizza la struttura e su cui stimola l’autore a motivare le proprie scelte nei diversi livelli dell’opera (pp. 58 e 60). Risposte vengono anche dall’operatore-video (Natan Berkowicz), che approssima una realtà plausibile ancorché misteriosa, ricordando che «Krystian souhaitait enfermer les personnages [di Capri] dans un musée du temps», nel duplicare la scenografia sul muro di fondo con effetto di «trouble optique» (p. 59). Maxim Teteruk precisa: «L’evidence est à ses yeux le lieu à investir afin d’en sonder le mystère. […] K. Lupa tente d’exprimer l’inexprimable», ed è il suo accesso a una «dimension politique», tentativo di demistificare «la mensonge de notre culture» (p. 61). E l’opera presuppone l’onerosa condizione di un attore ideale, al quale il maestro chiede di rivestire «l’homme de Picasso, une déformation cubiste» (p. 64). Sulla libertà dell’attore replica l’attrice Marta Zieba: «La liberté, chez Lupa, a le goût ineffable du rêve» (p. 67).

Altri due saggi affrontano il senso della nudità frequente nelle rappresentazioni, ponendo la domanda: «Où se situe la frontière entre son utilisation galvaudée et gratuite, et celle dotée d’une fonction psychologique, voir métaphysique?» (p. 89). Un esempio è tratto dal film che integra Capri, nel quale due protagonisti si muovono nudi nell’archeologia naturale dell’isola e dimostrano l’autocostruzione di una oppressività del nudo, «liée à nos hontes les plus extrèmes, souvent réligieuses» (p. 90). La peculiarità degli adattamenti di testi non drammatici si trova meno nella riduzione che nell’amplificazione delle suggestioni narrative, per una «dédramatisation et subjectivation pour atteindre le romanesque» (p. 100).

Un inserto di quindici pagine di immagini (Portfolio) illustra gli spettacoli visti in Francia dal 1992 e ne accompagna le riflessioni critiche.


di Gianni Poli


Copertina

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