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Storia del teatro latino

A cura di Gianna Petrone

Roma, Carocci, 2020, 406 pp., euro 39,00
ISBN 9788829003082

Il volume a cura di Gianna Petrone raccoglie saggi di affermati studiosi che ripercorrono la storia del teatro latino dalle prime performance dei fescennini versus e delle saturae alle tragedie di Seneca. Il testo abbraccia un arco cronologico di lunga durata includendo autori noti e meno noti, le cui opere sono indagate sia negli aspetti letterari sia scenici.

Nel primo capitolo Salvatore Monda ripercorre le origini (pp. 21-67). Come è noto, nel 240 a.C. a Roma avvenne la rappresentazione di una fabula di Livio Andronico. La data segna non solo la nascita del teatro regolare ma anche della letteratura latina. La coincidenza pone in rilevo il peso che i generi teatrali assunsero nella costruzione del patrimonio culturale. Sono poi considerate le diverse tipologie di ludi, lo spazio scenico, le performance e gli attori, le maschere e i costumi, la musica. L’aspetto spettacolare del teatro latino emerge in modo evidente.

Il contributo di Rita Degl’Innocenti Pierini è focalizzato sul teatro tragico nella Roma repubblicana (pp. 69-100), la cui nascita può verosimilmente essere posta in relazione alla tendenza ellenistica in cui sembrano prevalere la spettacolarità del dramma e lo spazio dato agli attori. È questa la tesi dell’autrice sulla base degli studi di Scevola Mariotti, Sebastiano Timpanaro, Alfonso Traina, debitamente citati. Dopo queste osservazioni preliminari, sono trattati il “pioniere” Livio Andronico, l’“innovatore e conservatore” Nevio, il pater Ennio, il doctus Pacuvio e l’ingeniosus Accio.

La commedia d’argomento greco è oggetto del terzo capitolo a firma della curatrice Petrone, specialista della palliata e in particolare di Plauto (pp. 101-110), tra le cui numerose pubblicazioni basti qui citare Quando le Muse parlavano latino. Studi su Plauto (Bologna, Pàtron, 2009). La storia della palliata, la commedia latina per eccellenza, è ripercorsa qui breviter: gli inizi con Livio Andronico, l’impronta di Nevio “comico”, la versatilità di Ennio, fino all’affermazione con il Sarsinate, maestro del genere. Degna di nota la considerazione anche di commediografi minori quali Licino Imbrex, Trabea, Atilio, Aquilio e Turpilio che rientrano in quella letteratura sommersa non tramandata dai grammatici (pp. 107-110).

Il quarto e il quinto capitolo sono dedicati a Plauto, la cui produzione è riferita al suo contesto culturale (pp. 111-116), all’ambiente teatrale contemporaneo (pp. 116-121), ai modelli greci e alla tradizione romana (pp. 122-125). Si segnala l’ampia sezione dedicata alla drammaturgia plautina in cui sono approfonditi elementi costituitivi quali la fabula e la fallacia, il metateatro, i personaggi dai nomina loquentia, la musica (pp. 130-148). Utili schede delle ventuno commedie plautine – tante furono incluse da Varrone, è risaputo, nell’opera De comoediis Plautinis comprendono la trama dettagliata e la “nota di lettura” in cui sono fornite informazioni sui modelli greci, la tematica, la performance (pp. 149-196).

È a cura di Maurizio Massimo Bianco la sezione su Cecilio Stazio, percepito già dagli antichi, con una sbrigativa schematizzazione, come anello di collegamento tra Plauto e Terenzio, i due più noti autori di palliate. Sono riportati titoli, trame e temi delle opere frammentarie (pp. 197-207).

Bianco è anche l’autore del settimo capitolo dedicato a Terenzio (pp. 209-244) e dell’ottavo sulla fabula togata (pp. 245-253). Il teatro terenziano è indagato nei suoi aspetti tradizionali e innovativi e nel rapporto con il pubblico. Sono quindi approfonditi i prologhi con le indicazioni programmatiche, lo stile, la ricerca della verosimiglianza, la drammaturgia a metà tra fabula stataria e fabula motoria. Seguono le trame, in sintesi, delle commedie (pp. 238-244).

Salvatore Monda ripercorre poi la storia della fabula Atellana (pp. 255-277). L’antico genere teatrale era caratterizzato dalla presenza in scena di maschere fisse. Differenti da quelle della tradizione greco-latina, esse corrispondevano a personaggi grotteschi: Macco, lo sciocco; Pappo, il vecchio lascivo; Buccone e Dossenno, gli ingordi mangioni. La comicità, fortemente farsesca, aveva come costante la soddisfazione dei bisogni corporali e l’oscenità.

Il decimo capitolo sul mimo e pantomimo a Roma, a cura di Bernhard Zimmermann, (pp. 269-279), è fin troppo sintetico là dove questi generi performativi riscossero notoriamente grande successo in età imperiale. Si pensi al celebre pantomimo Pilade indagato a fondo da Stefano Mazzoni (Danzare la regalità: Pilade vs Ila [Macrob. Sat. II 7,12], «Dionysus ex Machina», 2014, V, pp. 180-191; Storie di pantomimo: Pilade a Pompei e altre questioni, «Culture teatrali», 2011, XXI, pp. 287-298).

Alfredo Casamento si occupa del teatro di Seneca a cui sono dedicati l’undicesimo e il dodicesimo capitolo (pp. 281-338). Nella trattazione esaustiva si segnala la storia della fortuna del teatro senecano (pp. 310-315). L’interesse crescente per il corpus tragico dell’autore latino iniziò nel Trecento in seguito alla riscoperta del codice Etruscus nell’abbazia di Pomposa. Il Quattrocento poi identificò in Seneca lo stile degli antichi. Ricordiamo la Phaedra di Giovanni Sulpizio da Veroli andata in scena tra il 1486 e il 1488 nell’ambito dell’Accademia Romana diretta da Pomponio Leto. Lo spettacolo straordinario fu replicato in Castel Sant’Angelo alla presenza di papa Innocenzo VIII. Tra il Cinquecento e il Seicento si moltiplicarono le rappresentazioni dei drammi senecani, soprattutto nell’Inghilterra elisabettiana dove ne furono apprezzati i toni melodrammatici e le riflessioni moraleggianti. In ambito francese basti ricordare la celeberrima Phédre di Jean Racine del 1677. Quando poi la tragedia senecana entrò in competizione diretta con i drammaturghi greci, i cui testi, ormai letti e noti, ricevettero attenzione e cure esegetiche costanti, l’astro senecano iniziò la sua fase di declino.

L’ultimo capitolo di Elena Rossi Linguanti è focalizzato sulla fortuna del teatro latino (pp. 339-372). Sono proposti alcuni casi paradigmatici di influenza del teatro antico sulla modernità. Apprezzabile il tentativo di evitare un semplice elenco di rifacimenti e di evidenziare i vari modi in cui si combinano riscrittura e reinterpretazione. Sono presi in considerazione Amphitruo di Plauto (pp. 340-357) e Tieste di Seneca (pp. 357-372).

Chiudono il volume una ricca bibliografia aggiornata e un utile indice dei nomi. Il testo è leggibile e di facile consultazione grazie anche alla minuziosa ripartizione interna segnalata nell’indice. Un utile strumento di lavoro per i docenti e di studio per i discenti.




di Diana Perego


La copertina

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