La presenza in copertina della
troupe che ha consegnato ai posteri Rocco e i suoi
fratelli (1960) è a priori garanzia di ciò che si troverà nel
volume. Il protagonista di questa raccolta di memorie è Mario Garguglia,
fra i
più grandi scenografi del Novecento. Marco Pistoia, anche in qualità di
amico di lunga data, nellIntroduzione ripercorre la sua decennale
attività lavorativa per il teatro – per Luca Ronconi o per il Trittico pucciniano al Maggio Musicale
Fiorentino nel 1983 con le regie di Mario Monicelli, Ermanno Olmi e
Franco Piavoli – e per il cinema, con registi del calibro di Luchino
Visconti, Roger Vadim, Nikita Michalkov. «Arricchendo
continuamente la propria ricerca, rinnovandola costantemente, sempre dedito a
ideare nuove soluzioni, anche grazie a una forte attenzione verso nuove
tecniche e tecnologie per la scena» (p. 8), Garguglia ha dato prova della sua inesauribile
volontà di agire e di lasciare il segno.
Segue (Caro Mario…), calibrata e profonda intervista
curata sempre da Pistoia e uscita nel 2003 sulla rivista «The Scenographer». La
ricostruzione tecnica del lavoro dello scenografo nellambito di produzioni
internazionali si arricchisce di aneddoti dal sapore quasi leggendario; si
pensi alle riprese di War and Peace (1956) di King Vidor, quando Garguglia lavora
come assistente del suo maestro Mario Chiari: «feci personalmente
saltare per aria la più grande delle imbarcazioni, come a creare un grande
effetto speciale “da cinema”, con possibilità superiori a quelle praticabili a
teatro» (p. 17). E a proposito del rapporto teatro-cinema: «al cinema si hanno
più mezzi e più possibilità, a teatro vi sono più schiavitù e limiti, ma
proprio per questo credo di aver avuto, talora, più stimoli nel lavoro
teatrale, perché devi inventare qualcosa di particolare per oltrepassare i
limiti» (p. 19).
In I sogni e i luoghi lo scenografo marchigiano (di
nascita), fiorentino e romano (di formazione), ritorna con la memoria alla
propria infanzia e al primo incontro con il cinema, quando si ritrova ad
ammirare la «rappresentazione di una straziante Vita di Gesù e poi di un
saltellante Charlot, il tutto in uno sgangherato 16 mm, rumoroso e muto
contemporaneamente» (p. 32). Questa sezione, attraverso episodi autobiografici narrati
in prima persona, porta alla luce anche diverse realtà socioculturali vissute
dallo scenografo (un po una “storia dItalia” vista dai suoi occhi): gli
orrori della Seconda guerra mondiale durante il tempo del liceo a Firenze oppure
la “rinascita” negli anni immediatamente successivi. Ma il cuore pulsante della
narrazione sta nei racconti della propria attività lavorativa, come quando nel
1947 viene ammesso al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, poi
espulso e infine “salvato” dal teorico del cinema Béla Balázs. Seguono altre mirabolanti avventure con Alessandro
Blasetti, Alberto Lattuada, Vittorio De Sica, Pietro Germi
e Luciano Emmer. «Il cinema divenne allora un simbolo di rinascita,
cera un gran fermento creativo e una grande voglia di fare, sempre meglio e
sempre di più» (p. 46). Menzione a parte la serie di memorie riservate alla
ventennale collaborazione con Visconti, da Le notti bianche (1957) al debutto
teatrale nel 1958 con Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, da Il
lavoro (episodio in Boccaccio 70, 1962), Il Gattopardo
(1963) e Gruppo di famiglia in un interno (1974) fino allultimo Linnocente
(1976). Da segnalare inoltre i lavori con Monicelli, in particolare per La
Grande guerra (1959), in merito al quale Garbuglia evidenzia il rapporto
tra scenografia e sceneggiatura.
Altre memorabili esperienze internazionali furono quelle con
Vadim per Barbarella (1968) – ricca di difficoltà ma anche di grandi
soddisfazioni – e per Waterloo (1970) di Sergej Bondarčuk, considerata
«la più grande scenografia fatta al mondo di dieci chilometri quadrati.
Studiata e realizzata centimetro per centimetro come su un palcoscenico di
teatro. Una macchina scenica in cui tutto era previsto» (p. 89). Per non
parlare dei progetti incompiuti come la Recherche di Visconti e Mouche
(1991) di Marcel Carné. A coronamento di una sfavillante carriera tra Cinecittà
e Hollywood, dagli anni Settanta lo scenografo ricopre la cattedra di docente
di scenografia proprio dove tutto è cominciato, al CSC di Roma. Il volume vanta
inoltre una indimenticabile serie di immagini (foto, bozzetti, schizzi e
progetti) che da sola varrebbe il “prezzo del biglietto”.
Mentre
sempre più spesso un corposo numero di studiosi pone attenzione esclusiva su
attori e registi, un contributo come questo – che si propone di rivalutare un
ruolo troppo spesso trascurato nellanalisi dellindustria cinematografica – è
una manna dal cielo: un tentativo più che compiuto di ridistribuire i meriti del
prodotto filmico a quelle mani “invisibili” senza le quali non avremmo, ancora
oggi, immagini immortali.
di Giuseppe Mattia
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