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Mario Garbuglia. Luce sulla scena. Ricordi di cinema e teatro

A cura di Daniela Massidda

Roma, Palombi Editore, 2021, 158 pp., euro 15,00
ISBN 978-88-6060-916-8

La presenza in copertina della troupe che ha consegnato ai posteri Rocco e i suoi fratelli (1960) è a priori garanzia di ciò che si troverà nel volume. Il protagonista di questa raccolta di memorie è Mario Garguglia, fra i più grandi scenografi del Novecento. Marco Pistoia, anche in qualità di amico di lunga data, nell’Introduzione ripercorre la sua decennale attività lavorativa per il teatro – per Luca Ronconi o per il Trittico pucciniano al Maggio Musicale Fiorentino nel 1983 con le regie di Mario Monicelli, Ermanno Olmi e Franco Piavoli – e per il cinema, con registi del calibro di Luchino Visconti, Roger Vadim, Nikita Michalkov. «Arricchendo continuamente la propria ricerca, rinnovandola costantemente, sempre dedito a ideare nuove soluzioni, anche grazie a una forte attenzione verso nuove tecniche e tecnologie per la scena» (p. 8), Garguglia ha dato prova della sua inesauribile volontà di agire e di lasciare il segno.

Segue (Caro Mario…), calibrata e profonda intervista curata sempre da Pistoia e uscita nel 2003 sulla rivista «The Scenographer». La ricostruzione tecnica del lavoro dello scenografo nell’ambito di produzioni internazionali si arricchisce di aneddoti dal sapore quasi leggendario; si pensi alle riprese di War and Peace (1956) di King Vidor, quando Garguglia lavora come assistente del suo maestro Mario Chiari: «feci personalmente saltare per aria la più grande delle imbarcazioni, come a creare un grande effetto speciale “da cinema”, con possibilità superiori a quelle praticabili a teatro» (p. 17). E a proposito del rapporto teatro-cinema: «al cinema si hanno più mezzi e più possibilità, a teatro vi sono più schiavitù e limiti, ma proprio per questo credo di aver avuto, talora, più stimoli nel lavoro teatrale, perché devi inventare qualcosa di particolare per oltrepassare i limiti» (p. 19).

In I sogni e i luoghi lo scenografo marchigiano (di nascita), fiorentino e romano (di formazione), ritorna con la memoria alla propria infanzia e al primo incontro con il cinema, quando si ritrova ad ammirare la «rappresentazione di una straziante Vita di Gesù e poi di un saltellante Charlot, il tutto in uno sgangherato 16 mm, rumoroso e muto contemporaneamente» (p. 32). Questa sezione, attraverso episodi autobiografici narrati in prima persona, porta alla luce anche diverse realtà socioculturali vissute dallo scenografo (un po’ una “storia d’Italia” vista dai suoi occhi): gli orrori della Seconda guerra mondiale durante il tempo del liceo a Firenze oppure la “rinascita” negli anni immediatamente successivi. Ma il cuore pulsante della narrazione sta nei racconti della propria attività lavorativa, come quando nel 1947 viene ammesso al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, poi espulso e infine “salvato” dal teorico del cinema Béla Balázs.

Seguono altre mirabolanti avventure con Alessandro Blasetti, Alberto Lattuada, Vittorio De Sica, Pietro Germi e Luciano Emmer. «Il cinema divenne allora un simbolo di rinascita, c’era un gran fermento creativo e una grande voglia di fare, sempre meglio e sempre di più» (p. 46). Menzione a parte la serie di memorie riservate alla ventennale collaborazione con Visconti, da Le notti bianche (1957) al debutto teatrale nel 1958 con Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, da Il lavoro (episodio in Boccaccio ’70, 1962), Il Gattopardo (1963) e Gruppo di famiglia in un interno (1974) fino all’ultimo L’innocente (1976). Da segnalare inoltre i lavori con Monicelli, in particolare per La Grande guerra (1959), in merito al quale Garbuglia evidenzia il rapporto tra scenografia e sceneggiatura.

Altre memorabili esperienze internazionali furono quelle con Vadim per Barbarella (1968) – ricca di difficoltà ma anche di grandi soddisfazioni – e per Waterloo (1970) di Sergej Bondarčuk, considerata «la più grande scenografia fatta al mondo di dieci chilometri quadrati. Studiata e realizzata centimetro per centimetro come su un palcoscenico di teatro. Una macchina scenica in cui tutto era previsto» (p. 89). Per non parlare dei progetti incompiuti come la Recherche di Visconti e Mouche (1991) di Marcel Carné. A coronamento di una sfavillante carriera tra Cinecittà e Hollywood, dagli anni Settanta lo scenografo ricopre la cattedra di docente di scenografia proprio dove tutto è cominciato, al CSC di Roma. Il volume vanta inoltre una indimenticabile serie di immagini (foto, bozzetti, schizzi e progetti) che da sola varrebbe il “prezzo del biglietto”.

Mentre sempre più spesso un corposo numero di studiosi pone attenzione esclusiva su attori e registi, un contributo come questo – che si propone di rivalutare un ruolo troppo spesso trascurato nell’analisi dell’industria cinematografica – è una manna dal cielo: un tentativo più che compiuto di ridistribuire i meriti del prodotto filmico a quelle mani “invisibili” senza le quali non avremmo, ancora oggi, immagini immortali.


di Giuseppe Mattia


La copertina

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