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Théâtre/Public, n. 239, avril-juin, 2021
Faire scène. Arts de la scène et arts visuels


112 pp., euro 16,90

Composta da saggi, interviste e miscellanee, la rivista trimestrale dello storico teatro di Gennevilliers – Centre Dramatique National di banlieue dal 1983 – continua a riflettere sull’arte teatrale che la Francia condivide col resto del mondo. Questo numero è dedicato al rapporto fra le arti dello spettacolo e le arti visive. I campioni provengono dalle categorie della teatralità e della performatività. La ricerca indaga sui modi e gli effetti delle rappresentazioni più attuali, appunto nella loro capacità di concretarsi in evento scenico complessivo.

Un’intervista di Clare Finburgh Delijani a Marie Ndiaye porta la scrittrice di romanzi di successo a interrogarsi sullo sviluppo della sua opera teatrale, finora poco rappresentata. Le creazioni più significative nascono da testi commissionati da registi. Mentre Stanislas Nordey sta per rappresentare Berlin mon garçon al Théâtre National de Strasbourg, si possono meglio apprezzare le pièces precedenti di Ndiaye, a partire da Papa doit manger, allestita alla Comédie-Française nel 2003, e Les serpents del 2004. I confronti su temi e strutture mostrano sia le specificità della sua scrittura, sia le analogie con gli autori contemporanei. Ndiaye confessa sensibili influenze o ispirazioni venutele da drammaturghi quali Genet e Koltès, Crimp e Pinter, Von Mayenburg e Jelinek. Dei britannici e dei tedeschi apprezza come «prennent beaucoup plus à bras-le-corps les problèmes historiques ou sociaux» (p. 15). Quanto all’umorismo delle sue pièces, ammette il suo stupore per il riso che sanno suscitare. Motiva poi l’assenza di didascalie nei suoi testi, decisamente antirealistici, col desiderio di lasciarli più aperti alla libertà degli interpreti.

Il Dossier, coordinato da Laure Fernandez, si apre con una introduzione di merito e di metodo a firma della studiosa. Si tratta di verificare la validità di un’indagine che ha vissuto nel passato necessari aggiornamenti, ma lasciando spesso genericità di risposte e di orientamenti. Si parte storicamente da «l’influence / la résurgence du théâtral dans les arts visuels, depuis la fin des années 1960 et la critique antithéâtrale formulée par l’Américain Michael Fried au sujet de l’art minimaliste» (p. 20). In un contesto dall’interdisciplinarità quasi “constitutionnelle”, dove soggetti e creatori liberi dai generi espressivi agiscono in sistemi rappresentativi sempre più eterogenei, lo studio «entend décrypter ce que le théâtral, le performatif, le plastique font émerger sur les scènes. Et peut-être surtout: comme scène» (p. 20). Con ampie premesse teoriche, Marie-Christine Lesage illustra le esperienze relative alla problematica «assemblages corps-matières» (p. 44) da parte di due artiste canadesi meritevoli di essere conosciute per una sensibilità e operatività davvero inconsuete. Di Marie Brassard si presenta Introduction à la violence (Compagnia Infrarouge, 2019), lavoro che mostra come l’uso della tecnologia modifichi l’azione corporea personale (p. 45). Poi si discute su Les Marguerite(s) (Compagnia Ubu, 2018) di Stéphanie Jasmine e Denis Marleau, dove la sovrapposizione di azioni fisiche interagisce con riprese video.

Due articoli, addirittura, sono dedicati al lavoro della Societas Raffaello Sanzio e del direttore Romeo Castellucci. Un compendio di studi (sontuosi e ambiziosi) offre Piersandra Di Matteo, devota analista delle rappresentazioni che comportano «l’Image par-delà la technologie de l’œil» (pp. 21-28). Con linguaggio ermetico insegue l’immaginario dell’artista decantato in opere già lontane, quali M. =/ Marseille (2004), o il più recente Le Sacre du printemps (2014). In Le Metope du Partenone (2015) la studiosa osserva in particolare l’intreccio fra fiction e fonction, mentre nell’opera ispirata a Sacre du printemps di Stravinskij trova significativi i “personaggi” coreografici costituiti dai macchinari impiegati. Da quell’uso, «c’est là qui naît un nouvel objet esthétique, qui n’est pas l’exécution du ballet mais sa réinvention» (p. 25).

Fa eco il saggio di Kenza Jernite nell’insistente parallelo fra Una costilla sobre la mesa: Padre di Angelica Liddell e Sul concetto di volto nel Figlio di Dio di Castellucci, dimostrativo d’un «nouveau régime citationnel» che sarebbe capace di «composer à partir d’un régime d’images pensé et développé par un autre créateur» (p. 35). Georgina Guy riferisce, dall’osservatorio londinese, sulle modalità con cui vengono documentate e conservate le esperienze di performances da parte dei musei d’arte contemporanea (p. 74). Dalla visita di alcune mostre Guy deduce, quale novità saliente, il significato assunto dall’operazione del curatore, autodefinitosi artista in quanto ordinatore di installazioni di opere altrui. Così anche la danza si colloca in una “situazione” museale, come avviene al Tate Modern di Londra, nel quale non una raccolta di immagini o d’oggetti, ma un gruppo di artisti invitati assume in sé il valore di “installazione”.

Talvolta un’azione teatrale allusa o assente è rimpiazzata da audiodescrizioni di pièces: accade in una versione di Caretaker (Il guardiano) di Pinter, derivata da elementi scenografici tratti da un altro testo, Shoe Lady, riproposti in una installazione di «longue durée» (p. 80). In La souffrance des images, Joe Kelleher rende diaristicamente le sue avventure di spettatore inglese in giro per l’Europa, di fronte alle proposte eminentemente virtuali, giuntegli ormai come sostitutive della scena reale: uno schermo unico (se pure da “dispositivi” mediatici diversi) lo collega all’evento immaginario condizionante e univoco. Per l’effetto di immersione in un «supermarché des images» (p. 86), la situazione sociale dei lavoratori dello spettacolo – nell’epoca del virus – si inquadra in una “iconomie mondiale”, cioè in un regime economico iconizzato.

Una riflessione sconsolata di Thibaud Croisy, Vous n'êtes pas obligés d'applaudir, immagina nel 2029 un’organizzazione teatrale completamente dematerializzata, quindi insensata. Olivier Neveux ricostruisce la biografia artistica di Hélène Châtelain (d’origine russa, 1935-2020), attrice teatrale, di cinema e cineasta in proprio, fedele collaboratrice di Armand Gatti nell’instancabile carriera drammaturgica in difesa dei diritti civili dell’umanità più debole. Oltre i tratti del personaggio appassionato, emergono i motivi per leggerne l’opera. Le fonti pubblicate sono una raccolta di pensieri e appunti espressi dall’autrice a Grenoble nel 2014, documento di incontri decisivi con persone e temi, alimento della sua arte sempre poeticamente impegnata. 
di Gianni Poli


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