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Archeologia dei media. Nuove prospettive per la storia e la teoria della comunicazione


Roma, Carocci, 2019, 282 pp., euro 29,00
ISBN 978-88-430-9604-6

L’“archeologia dei media” è una sotto disciplina che da diversi anni si è affermata nel panorama accademico internazionale, delineandosi come una prospettiva di studi alternativa alla tradizionale “storia dei media”. Congegni eccezionali, bizzarre invenzioni, eccentriche tecnologie sono i principali oggetti d’indagine per una serie di studiosi che hanno progressivamente profilato un orizzonte metodologico e teorico comune, nonostante la spiccata propensione centrifuga e “anarchica” che caratterizza la disciplina (anche in virtù dell’eterogeneità dei suoi temi di studio). Il volume di Jussi Parikka, noto studioso dei media e professore presso l’Università di Southampton, è un testo capitale proprio per comprendere, al di là delle numerose diversità, l’idea comune che soggiace ai principali esponenti della Media Archaeology. L’opera, edita originariamente nel 2012, ha avuto fin da subito grande rilevanza internazionale, ed è finalmente stata tradotta in italiano nel 2019 dalla casa editrice Carocci.

 

La traduzione si avvale di una ricca prefazione di Ruggero Eugeni e di una altrettanto interessante postfazione di Simone Venturini. Il primo mette in luce la chiave di lettura più efficace per inquadrare le teorie media archeologiche, ossia quella di intendere la disciplina come «un ampio progetto di individuazione, ridistribuzione su tavoli di lavoro sia teorici sia storici, e conseguente ridefinizione delle questioni chiave dello studio contemporaneo sui media» (p. 20). Mentre Venturini ne individua il principale valore nell’essere un «angolo cieco delle scienze umane» (p. 240); nell’aver gettato luce su zone d’ombra della storia dei media, soprattutto a partire da una rivalutazione dell’importanza dell’archivio e del suo uso sistematico tanto per il recupero del passato quanto per la comprensione del presente.

 

Corredato da questi due importanti saggi, il testo di Parikka si apre con una densa introduzione che mette in luce i «background multipli» (p. 32) da cui si è formata l’archeologia dei media. In particolare, le teorie sull’archeologia del sapere di Michel Foucault e gli studi tecno mediali di Friedrich Kittler risultano i capisaldi teorici per la formazione di molti archeologi dei media contemporanei. Terminata la disamina genealogica, Parikka struttura la sua ricognizione lungo sei capitoli, ognuno inerente a una caratteristica o a un tema chiave per la disciplina.

 

Nel primo capitolo si analizza il rapporto dell’archeologia dei media con le percezioni sensoriali, in particolare audiovisive, affettive e algoritmiche, mettendo in luce la forte affinità con la New Film History e la rielaborazione dei rapporti uomo-macchina alla luce dell’avvento del digitale e della Software Culture. Due importanti studiosi come Thomas Elsaesser e Siegfried Zielinski sono tra i principali punti di riferimento in questa sede.

 

Nel successivo Media immaginari: mappare media strani, Parikka descrive uno dei soggetti di ricerca prediletti dalla disciplina, quello inerente all’insieme di dispositivi e tecnologie che non hanno mai trovato una traduzione reale (perlomeno significativa), ma sono rimasti solamente sulla carta e nella fantasia dei loro autori. Questi strumenti, per quanto obsoleti e fallimentari, possono tuttavia dimostrarsi rivelatori per comprendere «l’immaginario in un modo meno lacaniano e per vederlo come una risorsa per il nuovo» (p. 106).

 

Il terzo capitolo è dedicato al rapporto che l’archeologia dei media intesse con i concetti del nuovo materialismo, soprattutto in riferimento alla scuola tedesca, da Kittler fino ai più recenti Bernhard Siegert, Wolfgang Ernst e Claus Pias. Nei loro contributi, questi teorici propugnano un confronto con la macchina che non si cimenti solo nell’analisi testuale, ma provi a decifrarne anche ciò che succede al loro interno, sondandone la temporalità macchinica e le modalità processuali.

 

In Mappare il rumore e gli incidenti, Parikka passa a esaminare un aspetto per lui particolarmente significativo per la disciplina, poiché quello su cui si è più concentrato nelle sue precedenti ricerche. Il concetto di rumore è qui al centro dell’attenzione per la sua importanza nella cultura dei media moderni, troppo spesso osservati eliminando le componenti d’interferenza, disturbo e rimodulazione che da sempre li accompagnano e che ne costituiscono una variabile fondamentale per le modalità e capacità di comunicazione.

 

Al centro del quinto capitolo c’è il tema dell’archivio e il suo ruolo non solo nella ricerca storica, ma anche per la cultura contemporanea. «Anche la memoria è condizionata dalle piattaforme tecnologiche e dalle forme di inscrizione» (p. 194), osserva l’autore, mettendo soprattutto in evidenza la dimensione materiale e computazionale degli archivi digitali e interrogandosi sulle modalità con cui l’archeologia dei media può contribuire ai dibattiti contemporanei sulle Digital Humanities.

 

L’ultimo capitolo è incentrato sulle metodologie creative legate all’archeologia dei media. Grazie all’opera di una serie di artisti come Paul De Marinis o Zoe Beloff, tale disciplina si è fin da subito connotata per una spiccata sensibilità artistica, che ha cercato di tradurre in pratica le ricerche e riportare in vita (o darne una nuova a) tecnologie abbandonate e obsolete; non per rispondere a un richiamo vintage, ma per interrogarsi attivamente sulle temporalità dei dispositivi e sull’idea stessa del loro potersi continuamente assemblare in nuove forme.

 

Nelle conclusioni, Parikka s’interroga sul ruolo che deve assumere l’archeologia dei media negli anni a venire, soprattutto in relazione alla cultura digitale. L’idea di fondo, già avanzata nelle pagine introduttive, è che l’archeologia dei media «debba di necessità rinnovarsi continuamente rispetto alle domande emergenti sulla cultura digitale, la memoria e i media tecnici» (p. 32). Proprio in virtù di questo duplice sguardo, sistematico nei confronti di ciò che la disciplina è stata e propedeutico rispetto a ciò che dovrebbe diventare, questo volume rappresenta una pietra miliare non solo per chi s’interessa della disciplina in sé, ma per tutti coloro che vogliono affrontare lo studio dei media secondo una prospettiva nuova e multilineare.



di Matteo Citrini


La copertina

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