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Antonello Cresti

La musica e i suoi nemici
Dai talent-show alla trap: come l’industria discografica crea il conformismo di massa

Torino, Uno Editori, 2020, 235 pp., euro 14,90
ISBN 9788833801735

L’autotune designa la disumanizzazione della musica contemporanea così come la musica contemporanea è l’essenza del conformismo di massa, evocato già nel sottotitolo dell’ultimo libro di Antonello Cresti. Auto-Tune, software «che permette di correggere l’intonazione o mascherare piccoli errori o imperfezioni della voce, e usato in maniera ossessiva dalla discografia attuale» (p. 213), è la liquidazione della forza comunicativa della voce, non più espressione di identità, ma oltraggio alla differenza, alla sonorità connotativa. Auto-Tune ha fatto alla voce e alla musica ciò che Photoshop ha fatto all’immagine: attraverso un’aspirazione all’eliminazione dei difetti, ha prodotto una massificazione degli standard. La naturalezza, il difetto non possono più manifestarsi: essi sono rimossi in quanto valori minacciosi.

Certamente sull’abuso dell’autotune pesa la modalità di ascolto, il fatto che il target di riferimento della trap siano i più giovani, che ascoltano la musica attraverso smartphone, tablet o computer e non attraverso un impianto ad alta fedeltà. Ma, in questo caso, non si tratta di una scelta estetica e artistica (come può essere per molta discografia low-fi) o addirittura politica (basti pensare alla dimensione underground dei bootleg) e, quindi, organica a una critica tanto della società dei consumi, quanto di una povertà di orientamento del consumatore. Infatti, come fa notare Cresti, la trap vive su YouTube o altre piattaforme in cui l’individuo non vive più nella musica, ma subisce il progetto distopico di una globalizzazione uniformatrice. La catastrofe è in corso.

Ci sentiamo pervasi da un senso di assedio e, contemporaneamente, di indifferenza di fronte al declino in cui la musica incarna perfettamente il disfacimento, l’assuefazione al “brutto” che si diffonde «a tutta velocità all’attacco dei territori del basso Impero, travolgendoli come una fiumana» (Joris-Karl Huysmans, Controcorrente, Milano, Mondadori, 2019, p. 37). Il processo parte da lontano.

Il passaggio tra gli anni Settanta e Ottanta è uno spartiacque decisivo la cui forza propulsiva si prolunga nel decennio successivo. La musica svolge un ruolo fondamentale in quegli anni contrassegnati dai valori del material world, dalla rabbia elettronica, ma anche dall’industrial e dal No future dei Sex Pistols. Proprio il punk aveva vomitato il disagio per il presente, facendosi artefice di un approccio attivo alla musica e alla creazione artistica all’insegna della libertà e dell’etica del DIY, ma anche di un’attitudine per il “cimento” che Cresti ritiene esperienza fondante per la formazione dell’individuo. Si tratta di un contributo decisivo che metterà al centro la creatività e l’estemporaneità dell’esperienza come valori umani, artistici e musicali. Alla fine degli anni Ottanta si lega il processo di trasformazione del punk, che confluisce in altre correnti musicali e in altre sottoculture; sono anni in cui si va affermando la capacità del mercato di assorbire persino il dissenso, punk compreso, che, abbandonata ormai la vocazione sovversiva, negli anni Novanta diviene un fenomeno di massa. E, infatti, gli anni Novanta – come ricorda Cresti – vedono la scomparsa dei “sabotatori di civiltà”. In questo quadro, semmai, è il mercato a sabotare l’autenticità e il flusso creativo, saturando lo spazio con prodotti solo scenograficamente in conflitto con lo status quo, ma tutti pacificamente all’interno di esso e del mainstream. L’attuale Zeitgeist di cui la musica non è un prodotto ma – come leggiamo nella postfazione – una delle cause, è caratterizzato dal vuoto, dal “pericoloso” e dal “brutto” e fa parte del progetto disumanizzante.

È in questa raffigurazione di processi complessi che il saggio di Cresti trascende il puro fatto musicale per farsi inquadratura completa sull’abisso antropologico-culturale, duro attacco al mondo dell’arte e al Capitale Assoluto. Questa componente è evidente nella frequente evocazione di categorie oggi assenti dallo stile di vita e dai prodotti offerti dal mercato. I termini “bello”, “giusto”, “passione”, “emozione”, “armonioso”, “profondo” rimbalzano di continuo nei capitoli del libro. Certo, la critica corrosiva di Cresti si avvale dell’“io lirico”, che rende più potente la visione; Cresti si posiziona al centro di tutta la descrizione, mettendo il lettore a contatto con la sua personale esperienza di ascolto, con il suo ricco perimetro tra gli estremi.

Il capitolo sul black metal, genere per il quale usa l’espressione «frequentare l’infrequentabile» (p. 173), è tra i più appassionanti del libro. Eppure, la vibrazione adolescenziale non cede mai il campo alla nostalgia o al rimpianto, ma si fa consapevolezza. L’anelito al “bello” che percorre le pagine non è un rimpianto romantico, ma è un metodo che orienta la ricerca per individuare gli eventi, i fenomeni che hanno reso possibile l’attuale deriva di cui la trap è il simbolo più drammatico.

Il capitolo sulla trap è tra i più efficaci: vicende, testi, titoli e nomi dei protagonisti documentano la “strategia di abbassamento” e dimostrano definitivamente la tesi di Cresti: la trap non è che il brutto vessillo piantato su un pubblico passivo. La trap, fintamente trasgressiva, deve addomesticare le generazioni più giovani affinché digeriscano il modello di vita neoliberista in cui il dissenso è rappresentato da Greta Thunberg e la trasgressione è racchiusa in questi versi: «Io se non sfondo ho fallito / Parlo solo di droghe e puttane / Fotte un cazzo di fare gli incastri / Fotte solo di fare i miliardi / Voglio fare la spesa da Gucci / Voglio solo una vita decente» (7 miliardi di Massimo Pericolo, p. 211). I disvalori neoliberisti affiorano con precisione. La ribellione è una messa in scena organizzata per inibire qualsiasi reale atto o fenomeno sovversivo.

«Parlare di musica significa fare politica, nel senso più alto e più nobile del termine» (p. 84). E, se l’industria discografica seduce le più giovani generazioni rendendole apatiche e refrattarie a una ribellione reale, non è un caso. Se il grunge degli anni Novanta aveva scandito il riflusso dell’anima, qui siamo alla scomparsa dell’anima. È il mercato ad aver strutturato il vuoto. E, il vuoto, riguarda tutte le forme di arte, non più esaltate dal mercato, ma rese inoffensive nel loro impulso eversivo e assorbite dal Sistema. Per dirla con Marcuse, il centro culturale è diventato il centro commerciale.

E, tuttavia, le pagine de La musica e i suoi nemici, oltre a essere un duro atto d’accusa attraverso la stigmatizzazione di fatti e fenomeni precisi (la scomparsa della gioventù, la (dis)educazione, il concerto come solitudine condivisa, l’eterno ritorno dell’uguale con le cover band) si avvalgono anche di una pars construens in cui Cresti propone esperimenti di resistenza al progetto di distruzione del “bello”. Le vie d’uscita dal cortocircuito possono disinnescare l’apatia, il vero male di questi anni. Una di queste vie è quella della bellezza del già menzionato cimento, cui Cresti dedica un intero capitolo. Un’altra è quella della disciplina dell’ascolto, capitolo in cui l’autore si sofferma sull’importanza di saper ascoltare anche il silenzio, su quanto sia importante fermarsi ad ascoltare prestando attenzione alla fonte sonora. Non bisogna trascurare neanche le “musiche altre” già promosse in altre circostanze dallo studioso.

In definitiva, «bisogna iniziare con rinnovato spirito una battaglia comune per rimettere al centro della società, della vita di tutti noi la musica» (p. 230).


di Claudia Placanica


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