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Il teatro a Roma prima della “Cortigiana” (1525) di Pietro Aretino

A cura di Giuseppe Crimi

Roma, Roma nel Rinascimento, 2020, 172 pp., euro 20,00
ISBN 978-88-85800-15-1

Sulla scia di alcune recenti edizioni della I Cortigiana di Pietro Aretino (1525), l’associazione RR Roma nel Rinascimento, in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Roma Tre, ha organizzato nel giugno 2019 due giornate di studio per indagare i riferimenti culturali della commedia. I risultati di quelle indagini sono stati raccolti da Giuseppe Crimi in un volume che propone alcune riflessioni sulle drammaturgie lette, stampate e rappresentate nella città papale nei primi cinque lustri del secolo. L’assunto di partenza è quello di smentire l’ormai datato mito della “creatività naturale” di Aretino in favore di una più costruttiva dialettica tra tradizione e innovazione, con lo sguardo attento a quell’insieme di materiali eterogenei – commedie, egloghe, contrasti rusticali, tragedie, produzione in volgare, in latino e in spagnolo – che si incontra e si intreccia a Roma in quegli anni.

Si pensi alla presenza del letterato spagnolo Bartolomé de Torres Naharro, giunto in città nel 1508 dopo alcuni anni di prigionia presso i pirati di Algeri. Ottenuta la protezione di Giulio de’ Medici, futuro Clemente VII, e del cardinale Bernardino López de Calvajal, Torres Naharro compose alcune commedie senza ottenere il successo sperato. Così, poco prima del 1517, decise di trasferirsi a Napoli dove pubblicò una raccolta di opere, la Propallandia, dedicandola a Ferdinando Francesco d’Ávalois, marito della celebre poetessa Vittoria Colonna. Nella miscellanea, più volte riedita, si trovano anche otto commedie: Seraphina, Trophea, Soldadesca, Tinellaria, Ymenea, Jacinta, Calamita e Aquilana. Un’eccezione nel panorama editoriale del tempo, in cui raramente la produzione comica beneficiava della stampa. Lo sottolinea Franco Pignatti, dopo aver dato una personale lettura del frontespizio della prima edizione dell’opera, aver evidenziato possibili rimandi agli ambienti parigini e ricordato il ruolo degli spagnoli nella vita teatrale romana (pp. 115-140).

Non bisogna però dimenticare che tra il 1524 e il 1525 l’editore Francesco Minzio Calvo pubblicò in piccolo formato (12°) una serie di testi comici composti in caratteri minuscoli che sembrano far parte di un più ampio progetto volto, secondo Paola Cosentino, a definire uno o più modelli di commedia primocinquecentesca. Selezionati dall’Accademia Romana guidata da Angelo Colucci e forse privi «di un retroterra spettacolare, sembrano, se non altro, individuare un modello specifico di commedia, redatto in prosa, su cui forse vale la pena di indagare, anche perché la collana teatrale spicca all’interno di un panorama fatto soprattutto di edizioni-pirata uscite a ridosso delle messe in scena» (pp. 43-61: 44). Della “collezione” fecero parte, oltre alla Cassaria e ai Suppositi di Ariosto, la Calandra del Bibbiena, la Mandragola di Machiavelli e alcuni testi meno noti: il Formicone di Filippo Mantovano, l’Eutichia di Nicola Grasso e l’anonima Aristippia. A quest’ultima è dedicato l’approfondimento di Francesco Lucioli, che rilegge il testo alla luce dei coevi avvenimenti politici e, in particolare, al ritorno della famiglia della Rovere nel ducato di Urbino dopo il periodo del controllo mediceo-papale (pp. 63-77).

Le pagine di Stefano Benedetti sono dedicate alla fabula teatrale mescidata Osci et Volsci dialogus di Mariangelo Accursio. Indicato da Carlo Dionisotti come documento “principe” della persecuzione satirica contro il bolognese Giovan Battista Pio – un umanista di fama chiamato da Giulio II sulla cattedra di retorica del Ginnasio Romano –, quel dialogo è importante anche per le circostanze spettacolari per cui fu scritto, ovvero le feste romane del 1513 in onore di Giuliano de’ Medici (pp. 15-41). A seguire Chiara Cassiani torna sull’unico esperimento teatrale conosciuto di Francesco Berni, Catrina, una farsa in ottave in endecasillabi rimati simile a un canovaccio (pp. 79-89), mentre il curatore propone alcune riflessioni linguistiche sulla Calandra, tra ascendenze letterarie toscane e componenti proverbiali debitrici degli Adagia di Erasmo da Rotterdam (pp. 91-113).

In chiusura Raimondo Guarino offre un’utile sintesi sugli spazi dello spettacolo, dalle recite dei Pomponiani, forse in giardini e cortili arricchiti da collezioni archeologiche, alle innovazioni introdotte da Baldassarre Peruzzi, con cui si profila la creazione di uno spazio scenico funzionale alla rappresentazione e coerente con i valori simbolici e mimetici della nuova drammaturgia in volgare (pp. 141-151).


di Lorena Vallieri


Copertina

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