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Gigliola Fragnito

Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto gli occhi dei censori (secoli XV-XVII)


Bologna, il Mulino, 2019, 325 pp., euro 26,00
ISBN 978-88-15-28020-6

Esperta di storia religiosa, sociale e culturale della prima età moderna, Gigliola Fragnito studia da tempo e con profitto le pratiche della censura e il rapporto tra l’uso del latino e della lingua volgare nella storia della Chiesa. Lo dimostrano testi di riferimento come La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605) (1997, 2015); Proibito capire. La chiesa e il volgare nella prima età moderna (2005); Cinquecento italiano. Religione, cultura e potere dal Rinascimento alla Controriforma (2012). In questo filone d’indagine si inserisce anche il volume Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto gli occhi dei censori (secoli XV-XVII), in cui si affronta un tema in ampia parte ancora inedito, ovvero il divario tra la normativa e la prassi censoria indagato attraverso la puntuale ricostruzione di tutti quei meccanismi che produssero interventi esiziali sulla letteratura di svago di largo consumo.

I romanzi cavallereschi, la novellistica, la satira, le facezie e i motti, i capitoli berneschi e le lettere amorose non furono mai inseriti in alcun indice promulgato; eppure essi furono oggetto tra Cinque e Seicento di un capillare “rastrellamento” operato in base a liste semiufficiali, compilate confusamente a Roma e diramate in periferia. Nate sulla scia di un’eccessiva interpretazione della proibizione contenuta nell’Indice tridentino delle opere lascive e oscene, quelle liste furono spesso denunciate come abusive persino da alcuni cardinali membri della Congregazione dell’Indice. Nonostante ciò furono capillarmente seguite e portarono al sequestro e al rogo di molti di quei volumi, o al loro deposito negli archivi inquisitoriali e negli «inferni» delle biblioteche monastiche e conventuali, in attesa di una espurgazione «risoltasi, nel migliore dei casi, nel loro stravolgimento, nel peggiore nella loro scomparsa dal mercato librario fino al Settecento» (pp. 8-9). Con un impatto incalcolabile sulla nostra cultura: oltre ai danni ingentissimi recati all’industria tipografica, la «politica espurgatoria comportò la definitiva scomparsa non soltanto dal mercato, ma dalle biblioteche pubbliche e private di un’incalcolabile quantità di scritti e di autori che, sommandosi a quelli espressamente proibiti negli indici e a quelli inutilmente distrutti […] moltiplicarono gli effetti devastanti della censura ecclesiastica» (p. 157).

È facile intuire come tutto ciò ebbe importanti ripercussioni anche sullo spettacolo. È noto infatti come quella letteratura di intrattenimento presa di mira dalla censura, nata per lo più nelle corti e per le corti, fu rapidamente esportata nelle piazze e nelle strade. Cantimbanchi, mimi e istrioni la fecero propria per declamarla e cantarla, durante le loro performances, davanti a un pubblico vasto ed eterogeneo; inserendo nel proprio repertorio spezzoni di testi o loro adattamenti facilmente memorizzabili. I vari brani erano ripresi non solo dai romanzi cavallereschi, ma anche da testi in odore di eresia. Ne sono un esempio le Rime di Vittoria Colonna che, lette durante le feste degli Estensi (1537-1538), furono stampate “tanto scorrettamente” da un canterino, Ippolito da Ferrara, il quale non esitava a recitarle davanti ad affascinati ascoltatori che, per quanto analfabeti, non erano impermeabili ai loro contenuti.

Fu proprio la progressiva incrinatura delle barriere che separavano la cultura “alta” da quella dei ceti urbani, degli artigiani e dei commercianti, nonché la circolazione tra vari ambienti sociali degli stessi scritti, ad allarmare la Chiesa. Così, nel clima severo degli anni Settanta del Cinquecento, il carattere ludico e licenzioso di molta di questa letteratura fornì non pochi pretesti a coloro che si accingevano a “censurare le favole”. Lo scopo dell’azione repressiva era quello della moralizzazione dei fedeli. Unita alla rimozione della Sacra Scrittura e dei libri di contenuto biblico in volgare, alla liturgia e alla recita delle preghiere in latino, essa consentì alla Chiesa di esercitare più facilmente il suo potere sulle menti e sulle coscienze.

Non solo. Tra le altre complesse questioni affrontate merita una particolare menzione quella dell’autocensura, che emerge da molti epistolari di scrittori. Uno tra tutti Gabriello Chiabrera, i cui Poemetti sacri avevano incontrato, nel 1593, la disapprovazione dell’inquisitore di Genova. Sdegnato, l’autore aveva deciso di abbandonare la composizione: «quanto alla stampa di quei poemi, io ho altro in fantasia; e poiché a loro Rev. non par bene che la poesia s’intrometta ne’ concetti sacri, mi risolvo ad ubbidir loro […]; e questi staranno come cose perdute, e sepolti» (p. 208). Da quel momento le sue lettere testimoniano i freni autoimposti alla propria inventiva pur di conformarsi ai dettami romani e prevenire le manipolazioni dei propri scritti da parte dell’Inquisizione. Come nel caso dell’Amadeide (1614), da cui Chiabrera aveva preventivamente eliminato «tutto quello che secondo l’uso moderno possa annoiare il P. Inquisitore», non lasciandovi «parola che sia sbandita, dico fato, fortuna, e destini, e simigliante» (p. 22).

Sono questi solo alcuni degli aspetti presi in esame da Fragnito in pagine dense di notizie e informazioni, raccolte in un minuzioso e attento scavo archivistico. Il volume offre quindi un insostituibile spaccato sulla politica dell’informazione perseguita dalla Chiesa in età moderna e che restituisce spessore storico a personaggi rimasti parzialmente in ombra. E lo fa con una scrittura leggera e di piacevole lettura.


di Lorena Vallieri


Copertina

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