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Clio, Calliope e il do di petto. L’Antico e l’Opera

A cura di Camillo Faverzani

Lucca, LIM, 2020, 230 pp., euro 28,00
ISBN 978-88554-306-8

Benché rivolto al lettore specializzato, al curioso acculturato, il libro sa coinvolgere ogni sincero amatore di musica e spettacolo. Sono quattordici saggi sulle tematiche fra mito e storia, nella librettistica dell’opera lirica, nei quali le comparazioni testuali si integrano con apporti dalla messa in scena, inerenti ai molteplici aspetti della rappresentazione.

Il volume è frutto di stimolanti seminari italo-francesi coordinati da Camillo Faverzani, promotore di tante indagini interdisciplinari sulla drammaturgia e lo spettacolo musicali. La materia scelta – necessariamente riduttiva rispetto all’insieme delle ricerche svolte nel tempo (2011-2013) – è distribuita nelle cinque parti di un mosaico molto articolato di osservazioni, scoperte e acquisizioni critiche. Faverzani in apertura motiva le scelte e i criteri funzionali dei contributi proposti e nel riconoscere l’interesse per “l’antico”, che prevalse all’inizio del genere operistico, precisa che «non si esaurisce mai del tutto (Semiramide, Belisario, Attila…), sopravvivendo anche in tempi in cui gli autori del teatro per musica si orientano maggiormente verso testi percepiti come più moderni (i Romantici) o recuperano Shakespeare» (p. VII).   

Vittorio Coletti traccia l’itinerario dell’opera italiana in parallelo a quella francese (nei loro stretti rapporti di collaborazione e rivalità), segnandone più le istanze formali che non quelle ideologiche: «L’aria, ben presto la forma più celebre e più acclamata dell’opera, sembra trarre vantaggio dalla natura divina dei personaggi» (p. 3), alludendo ad esempi in Lully e Quinault. Praticare il “cantare” invece del “parlare” produceva uno shock al quale si cercava rimedio col «mettere in scena dei personaggi così soprannaturali che si potevano esprimere in musica anziché in prosa» (p. 5). La trattatistica e gli Annali degli eventi, compresi l’Orfeo francese di Buti e Rossi (1647) e il gusto diffuso nella Firenze medicea, nutrono la discussione. Essa segue gli influssi reciproci fra le civiltà confinanti nel passaggio di quel genere spettacolare dalle corti ai teatri a pagamento; fa notare come il Metastasio laicizzi l’opera italiana e il maturare d’una «dimensione religiosa inedita», ove «il Soprannaturale è ormai senza mito» (p. 13).

Il ruolo degli “oracoli” e dei “messaggeri”, studiato da Elisabetta Fava, evidenzia il gradimento della messa in scena da parte dello spettatore, in un’estetica del clou, culminante nella ricerca dell’episodio a effetto. Ne consegue il disimpegno del musicista, deluso per lo sforzo creativo svalutato. «Voci d’oltretomba e messaggeri dell’altro mondo» (p. 16) trovano esempi in Orfeo di Monteverdi (1607) e in La morte di Orfeo (1619) e Sant’Alessio di Stefano Landi (1632), nei quali si definiscono le tonalità vocali convenzionali attribuibili ai cantanti. L’«innesto del fantastico nel mitologico ha la sua riuscita migliore in Dido and Æneas, di Purcell […] pietra miliare della scrittura operistica» (p. 19). Procedimenti simili seguono in Gluck e Mozart, fino a Rossini di Semiramide e Mosé in Egitto e a opere di Verdi e di Petrella.  

Tre contributi risalgono alle origini del mito. Daniel-Henri Pageaux riflette su quello di Orfeo, svolto nei casi numerosi che lo rendono tipico e sintomatico del gusto e delle strutture correnti. Lo studioso si concentra su due opere di Marc-Antoine Charpentier, Orphée descendant aux enfers e La Descente d’Orphée aux enfers, nate nella cerchia di Maria di Lorena (principessa di Guisa), animatrice musicale dell’Hôtel de Clisson. L’interesse per il soggetto s’accresce con la disamina di Maria Carla Papini del seguito di opere moderne che del mito rivelano l’attualità, con Pierre Louÿs, Alberto Savinio e Salvatore Sciarrino. Ampio è l’excursus sulle fonti letterarie dei libretti, tra il XVII e il XX secolo, a partire da Psyché di Molière e Lully. Paola Ranzini, in Sassofoni vs filologia, ricostruisce lo spettacolo Medea di Robert Wilson e Gavin Bryars, sorto dalle variazioni attorno all’originale euripideo. Rilevanti i documenti (anche informatici) prodotti e confrontati nell’avvincente contributo e poi compendiati in Tavole sinottiche (pp. 70-71) degli elementi testuali comparati (da Wilson a Euripide) e della messa in scena (pp. 76-78) delle diverse soluzioni estetiche. «Con Medea, Wilson […] non propone una lettura del mito che ne sveli i sensi inediti […]. Preferisce concentrarsi sulle parole della tragedia euripidea considerandole alla stregua di materia […]. L’azione, la musica stessa sono subordinati alla partitura visiva» (p. 79).

Mostrare L’Idomeneo di W. A. Mozart nella sua ambiguità è lo scopo di Annie Paradis, che mentre valorizza la musica nel mito, racconta e spiega la nascita di una maturità artistica eccelsa, lungo «una traversata simbolicamente efficace nel senso che, dopo aver riavvicinato padre e figlio […] li separa definitivamente» (pp. 94-95). L’opera seria Ciro in Babilonia di Rossini è ritenuta da Cristina Barbato una composizione mediatrice tra il sacro e l’oriente. La sua analisi delle caratteristiche dell’opera segue il filo di un tema biblico dal fondamento storico, fino a rievocare la rappresentazione recente dell’opera, attualizzata dalla regia di Davide Livermore nel genere d’un «film delle origini» (p. 107). Davide Nadali illustra Nabucco riferendosi alle scoperte archeologiche dell’epoca e riproponendo le problematiche dell’ambientazione della “prima” verdiana rispetto a quelle delle realizzazioni successive.     

L’accurata ricerca di Fabiano Pietrosanti sull’evoluzione del personaggio di Nerone conduce alle rappresentazioni veneziane secentesche dell’opera, con documenti di cronaca sul teatro a pagamento funzionante in città. Preceduti da L’incoronazione di Poppea di Monteverdi e Busenello (1643), molti titoli sono rievocati, tra i quali Il Nerone di Corradi (1678) e Nerone fatto Cesare (1692) e Il ripudio d’Ottavia (1699) di Matteo Noris. Di ciascuno emergono le costanti strutturali e tematiche nel contesto delle pratiche autoriali autocelebrative e dei modi di frequentazione del pubblico. Una Tavola con le “funzioni” dei personaggi nelle varianti degli spettacoli (pp. 134-138) integra dati e testimonianze importanti per la storia “materiale” del genere.

Come i personaggi dell’antica Roma si caratterizzino nei libretti di Metastasio (esemplare La clemenza di Tito, 1734) mostra lo studio di Stefano Magni, che li indica come «nostri modelli culturali, in relazione con l’alterità barbara» (p. 140). È puntuale la disamina dello stile del poeta che in tanti testi pedagogici e ludici, ispirati dall’Arcadia, celebra la grandezza europea negli eroi romani e ottiene la fama mediante la loro messa in musica.

Jérôme Chaty segue due autori a cavallo fra due secoli, poeti teatrali alla Fenice, Antonio S. Sografi e Gaetano Rossi, abili promotori delle loro opere presso i gusti mutevoli degli spettatori. Le “alterazioni” esaminate sono le varianti drammaturgiche introdotte via via per rinnovare un soggetto e renderlo più gradito e capace di «stupire, rallegrare e istruire il pubblico» (p. 155). Infatti, «i riti misteriosi, le predizioni, i responsi che sappiamo aver avuto una certa importanza presso gli antichi romani, occupano pure un posto interessante in Sografi e centrale in Rossi» (p. 157), quali espedienti per rimpolpare una trama scarna.

Una Cronologia estesa sintetizza la trattazione. Camillo Faverzani analizza L’Oracolo sannita (1805) di Domenico Del Tufo e Nicola Antonio Zingarelli, nelle analogie rilevabili con Les Mariages samnites di Jean François Marmontel. Bella l’analisi della partitura che, comparata a quella del francese, fornisce una base importante di valutazione critica. Decisamente antiaccademico il saggio di Antonio Meneghello, rievocativo della creazione parigina di Le Martyre de Saint-Sébastien di D’Annunzio e Debussy (1911), un’azione scenica poetica, fomentata da un testo immaginifico su un santo “canonizzato” nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine. Lo si analizza nelle cinque “mansioni” (le mansions dei misteri medievali), saltando dal testo originale (e dalla sua traduzione italiana) alla registrazione discografica di un’esecuzione diretta da Inghelbrecht, che suscita una ammirazione speciale per il quadro La corte dei gigli: «È secondo noi uno dei passi più perfetti del poeta e forse di tutto il teatro occidentale» (p. 189). Seguono accattivanti parafrasi dell’invenzione dannunziana, un po’ letta, un po’ immaginata in spettacolo; infine, sintetizzata nella formula «Corpo, suono e parola divina» (p. 198).



di Gianni Poli


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