Vengono pubblicati, a distanza di
un decennio dalla loro prima rappresentazione, due testi significativi nella
drammaturgia di Marco Martinelli, autore e animatore del Teatro delle
Albe di Ravenna. Documenti della maturazione di un pensiero artistico che,
nella messa in scena della propria opera, riscontra una continua inadeguatezza di
fronte alla mutevole condizione storica. Gerardo Guccini, curatore del
volume, rileva gli slittamenti di senso e di intendimento che quelle pièces subiscono con il passare del
tempo: «Una cosa è decifrare nel 2004 lallegoria sociale di Salmagundi, tutta giocata sulle
corrispondenze fra diffusione della stupidità e dilagare epidemico; unaltra è
seguire oggi le demenziali strategie del potere politico-scientifico […] avendo
sottocchio comportamenti contraddittori nella gestione del virus» (p. 5). Lo studioso
accompagna criticamente testi e spettacoli sia lungo il loro «processo
compositivo» (ibid.), sia tentando una valutazione più generale di tutto il
lavoro di Martinelli, poeta-guida di attori-interpreti a lui fedeli.Diversi per linguaggio e
significato, per struttura e scopi estetici, i due drammi riescono a mostrare lidentità
riconoscibile dellautore alle prese con temi cari e necessari alla propria
espressione, nella dimensione personale e nel coinvolgimento del collettivo che
con lui li rappresenta. Salmagundi è
azione mimica, oltre che verbale e gestuale, in sintonia con una compagnia bene
addestrata a improvvisare con originalità personale e di gruppo. Il copione
raccoglie suggestioni surrealiste (dalle commedie di Roger Vitrac),
oniriche visioni frequentate da fantasmi, impaginate come “numeri” di varietà, in
sequenze grottesche e folli. Quale frutto della drammaturgia europea, presenta caratteri
di tradizioni popolari e contadine. Leco di Jarry dalla matrice di Ubu re si estende ai rapporti fra le
classi sociali e ai ruoli famigliari in tante allusioni autarchicamente
italiane. La narrazione è affidata più allo sviluppo scenico che agli enunciati
dei personaggi, così da suscitare analogie sensibili con una realtà assente o
“altra”.
Leffetto di sfasamento fra
storia e fantasia è amplificato dalla distanza dellattuale lettura rispetto al
momento della concezione del testo. Se tale effetto è possibile coglierlo alla
prima lettura anche da parte di chi non ha assistito allo spettacolo del 2004, meglio
lo si verifica nellIntroduzione di Guccini,
grazie alle sue «letture fluttuanti» lungo suasive argomentazioni. La pièce originaria descriveva con la metafora
dellepidemia un mutamento antropologico dovuto allistupidimento
dellindividuo sociale, diffuso da un male che mutava le viscere dei contagiati
in un “salame cotto” (salmagundi, appunto,
in dialetto). Così Guccini: «Nel 2004, laspetto più minaccioso dellallegoria
drammatica di Salmagundi consisteva
nella sua funzione di annuncio. […] Ora, invece, non cè alcun bisogno di
dispositivi narrativi che collochino in un futuro immanente il compimento del
senso allegorico: questo deflagra nel presente corrispondendo fin nei dettagli
allaccadere dei fatti reali» (p. 18). Il pericolo della malattia, insomma,
denuncia oggi una «nuova normalità allineata al disvalore dellalienazione
consumistica» (p. 13). Il Coro inneggia difatti a una comoda, patriottica
identità: «Salmagundi è il mio paese / e ci faccio tutte quante le mie spese»
(p. 110).
La coppia Madre-Padre (presenze
fantasmatiche, ma potenti) è coartefice dellapoteosi del figlio Merletto, dopo
che lo zio Gustavo ha sbandierato il portentoso contagio che lo ha sconvolto: «Ho
il cuore come un salame cotto!» (p. 92), diffondendo la psicosi nellintero paese.
Inoltre sono crudamente illustrati (anche mediante i nomi dei personaggi) il godimento
del popolo manipolato che delega il potere alla figura di marionetta di Merletto;
o lefficacia della comunicazione mistificante, che con gli slogans conquista il consenso. Sono così
Spurgo e Pozzi Neri a imporre il ritorno della monarchia e a fare eleggere Merletto
primo re di Salmagundi. La tragica illusione della guarigione dal virus, coincidente
nel rinnovamento della nazione, chiude la rappresentazione della “favola
patriottica”, nel genere riesumato e rigenerato dellavanspettacolo.
Rumore di acque (2010) deriva da Cercatori di tracce, un lavoro su Sofocle avviato nel 2008 a
Mazara del Vallo: per lautore, «una specie di festa tunisina, con la danza del
ventre e molto altro» (p. 133). Ma molto più vale per le immagini disturbanti e
critiche contro lacquiescenza dellinformazione sui migranti, vigente
allepoca dei fatti clamorosi. La riflessione drammatica attualizzata suppone
altre reazioni e altri sentimenti rafforzati dallemozione resa più
intelligente, a distanza, sulla vicenda di tanti «ragazzi emigrati ancora con
un piede in Tunisia e un piede in Sicilia» (p. 134). Il testo partiva dallipotesi
di rappresentare un Gheddafi protagonista monologante, che poi veniva cambiato
in un generale contabile addetto a censire gli innumerevoli naufraghi. La sua affabulazione
attraversava i toni dellaccusa, della recriminazione, dellinvettiva e della
narrazione. Già alla creazione del 2010, il generale era «ossessionato da
quantità numeriche che non corrispondono a nulla se non allevocazione di unagghiacciante
massa di morti innominati» (p. 9), in un delirio numerico tipico del
travisamento e della rimozione della verità.
Si riafferma, dunque, una drammaturgia
della “maschera”, prodotto consapevolmente perseguito dal Teatro delle Albe, nella
quale il sarcasmo recupera la lingua dei miserabili respinti nel silenzio mortale
e ottiene sentimenti di feroce condanna attraverso una comicità senza scampo
catartico. Il generale, sostituto immaginario del vero presidente, sta su unisola e parla con pesci – «squali,
pescecani, triglie e tonni e leviatani» (p. 191) – personificati, responsabili
della strage che rende i morti irriconoscibili e nemmeno numerabili.
Recitato a New York (2014) e a
Mons, dove nel 2015 un coro di ottanta cittadini evocava gli “spiriti” dei naufraghi,
il testo saddensa di compassione per il destino di chi «non ce lha fatta»,
come nel caso di Yusuf, «un ragazzino / pelle nera / Cosa vuoi che
capiscano questi qua / Capiscono niente / Pelle nera / E vai a parlar loro di
democrazia / Ridicolo» (p. 163). Contributi critici, di lettori e spettatori
scelti, accompagnano i testi, a testimonianza puntuale della misura umana e
artistica del fenomeno.
di Gianni Poli
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