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Francesco Rosi. Il cinema e oltre

A cura di Nicola Pasqualicchio e Alberto Scandola

Milano - Udine, Mimesis, 2019, 254 pp., 22.00 euro
ISBN 978-88-57548-79-1

Il presente volume, curato da Nicola Pasqualicchio e Alberto Scandola, raccoglie gli atti del convegno organizzato dal Dipartimento di culture e civiltà dell’Università di Verona nel 2017. Rompendo «il silenzio critico che da molti anni è calato su Rosi e la sua opera» (p. 9), si intende qui offrire nuove chiavi di lettura per comprendere un autore sensibile ai cambiamenti che hanno attraversato il Novecento, sempre impegnato in tutte le fasi di produzione delle sue pellicole.

La suddivisione del volume in tre sezioni (Il cinema, I film, Oltre il cinema) consente di addentrarsi rispettivamente nelle riflessioni sul cinema tout court di Francesco Rosi, nell’analisi delle sue opere e infine nelle sue esperienze di regista teatrale.

I contributi che indagano i rapporti di Rosi con i suoi collaboratori sono rispettivamente a opera di Giorgio Tinazzi (sul dialogo con lo scenografo Andrea Crisanti); di Denis Brotto (sul lavoro in fase di montaggio con Mario Serandrei e Ruggero Mastroianni) e del curatore Scandola (circa l’approccio umano e professionale con gli attori). Se Tinazzi pone in rilievo la puntigliosa ricostruzione degli ambienti e il lavoro di documentazione al fine di un “realismo” inteso come rispecchiamento del reale, Brotto analizza le modalità di costruzione narrativa e visiva attraverso il montaggio, definito da Rosi stesso il punto focale del suo lavoro.

Scandola si chiede se «l’interprete collabora alla definizione della psicologia del personaggio oppure si offre semplicemente come materiale da plasmare» (p. 65). Cercando «di mettere in pratica uno dei miti fondatori del cinema moderno, ovvero l’amalgama» (p. 66), nella sua corposa filmografia Rosi si è avvalso della presenza di star internazionali, di attori formatisi nell’ambito teatrale e insieme di attori non professionisti.

Nella seconda sezione, Denis Lotti analizza Le mani sulla città (1963) in cui coraggiosamente si «racconta la speculazione edilizia, espressione e metafora di un più ampio degrado etico e politico» (p. 127). Riflessioni di natura socio-politica propone Christian Uva su Cadaveri eccellenti (1976), uno dei film più emblematici nella rappresentazione della tristemente celebre “strategia della tensione” e poi su Tre fratelli (1981): «opera che sviluppa una lucida riflessione sulla questione della lotta armata proiettandola sullo sfondo della morte della società contadina e quindi di un nostalgico richiamo alle origini e ai padri» (p. 82). Su questa stessa falsariga Stefania Parigi approfondisce il metodo narrativo di Rosi, di tipo indiziario, teso a rendere frammentario il tempo della storia. Dopo aver passato in rassegna i suoi film più “politici”, l’analisi del meno noto Tre fratelli consente alla studiosa di soffermarsi sul montaggio alternato, sull’importanza della morte come collante nelle vicende e sul fattore onirico e simbolico che permea, seppur velatamente, l’intera pellicola.

L’ispirazione letteraria è affrontata da Paola Zeni rispetto a opere quali C’era una volta… (1967), in cui Lo cunto de li cunti (1634) di Gianbattista Basile è reinterpretato e ricontestualizzato imponendo «un ulteriore, evidente grado di separazione dal canone alla fiaba» (p. 108).

Nella terza sezione, Anna Barsotti intervista Carolina Rosi sul rapporto tra il padre il teatro, in particolare sulla relazione con Luca De Filippo per la messa in scena della trilogia eduardiana (Napoli milionaria, Filumena Martorano e Le voci di dentro). Un altro importante tassello per ricostruire la figura di Rosi è fornito da Vincenzo Borghetti con l’analisi di Carmen (1984), trasposizione sullo schermo dell’omonima opera di Bizet (1875) in cui melodramma e cinema vanno di pari passo. Secondo la musicologa statunitense Susan McClary, Rosi proporrebbe un’inedita lettura sovversiva di Carmen, ergendola a protagonista ribelle e a eroina. Infine, Simona Brunetti si sofferma su Kean - Genio e sregolatezza (1956), co-diretto insieme a Vittorio Gassman che già due anni prima lo aveva portato sul palcoscenico. Tratto dall’opera teatrale Kean, ou Désorde et Génie (1836) di Alexandre Dumas padre e dal suo adattamento omonimo (1953) di Jean-Paul Sartre, il film propone una sceneggiatura più vicina a quella teatrale e un apparato scenografico che assume un ruolo centrale nella mise-en-scène.


di Giuseppe Mattia


La copertina

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