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Ripensare Dario Fo. Teatro, lingua, politica

A cura di Luca D’Onghia e Eva Marinai

Milano, Mimesis, 2020, 163 pp., 14.00 euro
ISBN 978-88-5755-356-6

Il volume curato da Luca D’Onghia ed Eva Marinai, risultato di una giornata di studi svoltasi alla Scuola Normale Superiore di Pisa il 30 ottobre 2017, si apre con una breve ma significativa descrizione di Dario Fo, di cui si evidenziano luci e ombre: «Fo resta uno degli autori più discussi del canone recente. Giullare protestatario incoronato dal Nobel (1997), agitatore politico marginalizzato dalle istituzioni e mostro sacro in vita, teorico delle “messe da campo” e monologhista senza pari, controinformatore e geniale bugiardo: in Fo coabitano, contraddittori e sfuggenti, un dritto e un rovescio destinati a deludere – se non a esasperare – chi tenti di farsene un’immagine coerente e unitaria» (p. 7). Un senso di delusione e smarrimento che viene amplificato se solo si tenta di accostare alcune delle sue prime straordinarie produzioni, soprattutto quelle in collaborazione con Franca Rame, con le ultime, in cui giganteggia la sua figura, per non dire il suo ego, spesso a discapito dello spettacolo, sempre a costo di grossolane approssimazioni.

Se questa è l’opinione personale di chi scrive, valgano a riscontro le parole di critici come Ferdinando Taviani e Renato Palazzi, che nel necrologio dell’attore non esitò a scrivere: «amava dissertare su argomenti di cui era poco informato: senza remore o esitazioni ciò che non sapeva lo inventava alla sua maniera. Su Ruzante e Goldoni, ad esempio, aveva sostenuto fandonie colossali» («Il Sole 24 ore», 13 ottobre 2016, p. 8). Resta che Fo è una delle personalità di spicco del teatro italiano del secondo Novecento, cui vanno ascritti capolavori come Morte accidentale di un anarchico. La sua personalità artistica, riconosciuta a livello internazionale, merita di essere ripensata e contestualizzata, anche alla luce della documentazione recentemente depositata nell’Archivio Rame-Fo, consultabile on line all’indirizzo www.archivio.francarame.it. Questo l’auspicio anche dei curatori del volume, che propongono una serie di saggi interdisciplinari, frutto della penna sia di studiosi che a Fo hanno già dedicato importanti contributi, sia di giovani ricercatori che si avvicinano per la prima volta all’attore-drammaturgo.  

In apertura Anna Barsotti rilegge, con una particolare attenzione alla scenografia e al linguaggio mimico e verbale, due commedie generalmente trascurate dalla critica: La storia vera di Piero d’Angera che alla crociata non c’era (1960, mai messo in scena da Fo) e La colpa è sempre del diavolo (1965). Entrambe ambientate in un Medioevo lombardo rivisitato e fantasioso, trasposizione metaforica del presente, mettono in scena il popolo in rivolta: vincente nel primo caso; raggirato da un diavolo nano e più ancora dagli esponenti del potere, abili a strumentalizzare perfino il male, nel secondo (pp. 15-27). A seguire Chiara Battistella verifica in che misura il teatro antico, tragico e comico, ha influito sulla drammaturgia di Fo, considerando non solo le riprese dichiarate, ma anche i passi in cui la derivazione classica è meno evidente (pp. 29-50). Mentre Michele Maiolani ricostruisce le fonti linguistiche e letterarie di Mistero buffo, certo l’opera più nota e rappresentata di Fo, ma anche la più ricca e complessa per quanto riguarda il rapporto con la tradizione (pp. 79-99).

D’altra parte, era abitudine di Fo insistere sulla sistematicità delle ricerche che sarebbero state alla base di molti dei suoi spettacoli, spesso ostentate attraverso lo sfoggio di bibliografie fantasmagoriche e il ricorso all’autorialità di studiosi di grido, tra cui non di rado Ludovico Zorzi. Sono queste le premesse con cui D’Onghia esamina, con l’occhio esperto del filologo, le due redazioni del celebre spettacolo su San Francesco (1999 e 2014) arrivando a sollevare una questione di metodo: quale è il testo da ritenersi più vicino alla volontà dell’autore? Davvero quello del 2014, riscritto in una lingua che vorrebbe arieggiare gli antichi volgari umbri? Una questione non da poco, se si pensa alla costante «autoriscrittura» di Fo (pp. 51-63). Non solo. Occorre anche domandarsi come mettere in relazione le varie riscritture alle esigenze della scena e alla sua prassi attoriale. Da questo punto di vista è centrale il saggio della Marinai, che propone una sintesi delle tecniche chiave dell’arte oratoria e performativa di Fo (pp. 101-114).

Joseph Farrell ripercorre l’itinerario ideologico del drammaturgo alla luce degli incontri con il pensiero di Gramsci nella Milano della Liberazione, con l’attore Franco Parenti, via via fino al sodalizio del 2013 con Beppe Grillo, alla ricerca dei capisaldi del suo pensiero etico e politico (pp. 66-78). Pietro Trifone dedica alcune pagine all’etimologia del termine grammelot, che fa risalire al francese grommelot e quindi agli esercizi vocali in uso presso la scuola teatrale del Vieux-Colombier di Jacques Copeau (pp. 115-120). Infine, Piermario Vescovo riflette sulle reazioni suscitate dalla drammaturgia linguistica e attoriale di Fo nel teatro del decennio 1966-1976, ovvero nella Milano di Strehler e Testori, ma anche in relazione a film come l’Armata Brancaleone di Monicelli (pp. 121-144).

Chiude il volume uno sguardo “diverso”, quello del regista Eugenio Allegri che nel febbraio 2018 ha allestito a Torino presso le Fonderie Limone un adattamento di Mistero buffo calibrato sulle doti performative del giovane attore Matthias Martelli (pp. 145-158).


di Lorena Vallieri


La copertina

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