La
raccolta Visualizing War, curata da Anders Engberg-Pedersen e Kathrin
Maurer per la collana “Routledge Advances in Art and Visual studies”, rappresenta
un importante punto di snodo per quanto riguarda lo studio sulla
visualizzazione e la mediatizzazione della guerra secondo le prospettive più recenti
dei visual culture studies. Il volume vanta una eccellente prefazione firmata
da William John Thomas Mitchell, tra i fondatori della disciplina, che
mette in luce il nodo della questione: «Why and how do we visualize war?» (p.
IX). Nel tentativo di fornire una risposta, si seguono due diverse tensioni in
conflitto tra loro: da una parte la volontà di sottolineare come la messa in
forma spettacolare della guerra non sia nulla di nuovo, ma che anzi risalga
alle radici della nostra cultura; dallaltra la ricerca delle unicità
(rappresentative, mediatiche, sensoriali, …) che ogni guerra ha messo in atto
nel proprio specifico. Nella
prima sezione, Equivocal Emotions, sono raccolti i saggi che sottolineano
le ambivalenze emotive generate da esperienze belliche, come nel caso degli
album fotografici di due infermiere del Terzo Reich analizzati da Elisabeth
Krimmer. Mentre Christine Kanz prende in esame il primo
dopoguerra, cercando nelle figure di due artisti quali Max Beckmann ed
Ernst Jünger casi emblematici di «emotional detachment» (p. 43): il
distanziamento emotivo rappresentato e mediato da immagini e testi di guerra.
In
Emotional Technologies lattenzione passa ai dispositivi e alle tecniche
ideate, più o meno consapevolmente, per sfruttare il portato emotivo della
guerra. Si passa dallanalisi sulle mappe e i primi “wargames” condotta da
Anders Engberg-Pedersen alle riflessioni di Kathrin Maurer sul panorama
ottocentesco e su quello che definisce «the paradox of total immersion» (p. 78):
la restituzione al tempo stesso di una visione anacronistica della guerra unita
a uno slancio propagandistico per future conquiste.
Lultima
sezione, Building Emotional Communities, si concentra sulle forme di
visualizzazione e sulle tecnologie emozionali che si sono dimostrate capaci di
costruire comunità. Sia nellambito artistico, come esemplifica Hermann
Kappelhoff nel suo studio su film di propaganda legati al contesto della seconda
guerra mondiale e che seppero mobilitare gruppi politici (emblematico il caso
di Leni Riefenstahl); sia sui social media, nei quali, osserva Jan
Mieszkowski, lapparente novità del mezzo si riallaccia a una ben più
radicata eredità di spettacolarizzazione della battaglia.
Anche
nel panorama accademico italiano sono recentemente apparsi contributi dedicati ai
visual studies. Il volume La cultura visuale del Ventunesimo secolo (Milano, Meltemi, 2018), curato da Andrea
Rabbito, si concentra sullanalisi dei più recenti fenomeni visuali in una
prospettiva interdisciplinare e prelude a una serie espressamente dedicata agli
studi di questa nuova disciplina.
Nel
saggio di apertura, Vito Zagarrio identifica sei tendenze che si muovono
a cavallo tra cinema dautore e cinema mainstream, «entrambi
caratterizzati da unimplosione del sistema narrativo e da un […] desiderio di
sperimentazione» (p. 14): dalle influenze delle logiche da videogame alla
nostalgia per lanalogico; tendenze che in ultima analisi mettono in crisi il
concetto stesso di “corpo” filmico.
In
Temporalità sovrapposte, Ruggero Eugeni si interroga sul concetto
di “presenza” e tenta di «definire diversi modelli e gradi di presenza
dellutente nel passaggio dai media astantivi ai media immersivi» (p. 34), per
poi concludere con una profonda riflessione sulla temporalità di questultimi e
di come essa si possa riallacciare a esperienze astantive precedenti, secondo
una logica di continuità.
Nel
suo approfondimento attorno alle più recenti rappresentazioni della shoah,
Michele Guerra riprende le riflessioni di Didi-Huberman e Agamben
per esplorare il concetto di invisibilità legato alle fotografie dello
sterminio. Dario Tomasello si pone invece lobiettivo di «esaminare in
modo diacronico il problema delle immagini nellambito della tradizione
islamica» (p. 187) partendo dallinsegnamento coranico e concentrandosi sul
potere sinestetico della parola. Mentre Rino Schembri apre a
unanalisi sullimmagine fotografica di Instagram cercando di trovarne una
definizione a partire dal dualismo realtà-messinscena.
Il
volume propone un ricco, polifonico carnet
di voci, alcune delle quali tuttavia sembrano rientrare a fatica nellambito
della cultura visuale e che forse dilatano troppo il campo di studi, cadendo in
quel quantity problem riproposto di
recente da Michele Cometa nella sua prefazione alledizione italiana di Pictorial
Turn di Mitchell (Milano, Raffaello Cortina, 2017, p. 12): il rischio cioè
di trasformare il concetto di cultura visuale in un termine-ombrello sotto cui
far convergere lo studio di ogni fenomeno legato alla visualità, smussando così
inevitabilmente laffilatezza dei suoi strumenti metodologici.
di Matteo Citrini
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