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Federico Vitella

L'età dello schermo panoramico
Il cinema italiano e la rivoluzione widescreen

Pisa, Edizioni ETS, 2018, 214 pp., euro 20,00
ISBN 9788846754455

Recentemente premiato ai Limina 2019 come miglior libro italiano di studi sul cinema, il volume di Vitella affronta il tema dell’introduzione e dell’istituzionalizzazione dello schermo panoramico secondo una prospettiva nazionale su un arco temporale che parte dalla prima proiezione italiana widescreen (1953) per chiudersi un decennio dopo con l’oramai consolidata standardizzazione del formato. L’autore non si limita a recuperare la bibliografia sul tema e ad applicarla al contesto italiano, ma indaga direttamente le fonti primarie (riviste, brevetti, articoli) valendosi anche del contributo di esperti e tecnici del settore. Una mole notevole di materiale che non appesantisce il testo, che anzi si caratterizza per una scrittura leggera e fluida.

Rifacendosi ai pionieristici studi sulla storia del formato panoramico negli Stati Uniti di John Belton (la cui ricca, suggestiva prefazione arricchisce il volume), Vitella ricostruisce un periodo di grande fermento tecnologico e stilistico per l’industria cinematografica italiana. Pur muovendosi in un processo di ristrutturazione dei paradigmi produttivi ed estetici a carattere internazionale, il caso italiano presenta una propria originalità e una serie interessante di eccezioni: basti pensare all’introduzione del Techniscope, brevetto made in Italy che permette una maggiore profondità di fuoco rispetto agli standard di marca estera e dell’uso che ne fece Sergio Leone nei suoi oramai iconici lunghi piani.

Nell’Introduzione si affrontano questioni propedeutiche all’analisi, quali ad esempio quella terminologica relativa alle definizioni di “formato” e “panoramico”, storicamente polivalenti. Concentrandosi poi sulla storia del cinema italiano, Vitella si rifà al concetto di “storiografia della crisi” elaborato nei primi anni del Duemila da Rick Altman. Tale prospettiva sostiene che «l’identità di una nuova tecnologia, lungi da essere fissata una volta per tutte, sia socialmente e storicamente contingente» (p. 9). Ragion per cui il testo non manca di un’attenta analisi del contesto storico, con particolare attenzione alle dinamiche e alle riconfigurazioni produttive nate a partire dalla diffusione dello schermo televisivo.

Il primo capitolo si concentra sull’impatto che il widescreen esercita in Italia tra il ’53 e il ’54. Biennio che si contraddistingue per la presenza di un «paradigma dell’eccezione tecnologica» (p. 188), in cui non vi è produzione nostrana e le prime sale tentano di adeguarsi a quello che è ancora un fenomeno minoritario importato da oltreoceano. Pertanto, è un periodo di dominanza del fattore tecnologico, le cui costrizioni in termini di costi e complessità rappresentano i fattori principali. Sempre restando all’interno di questo paradigma, Vitella analizza il caso del Cinerama, esperimento che conobbe un successo tanto grande quanto breve, emblematico dell’estrema volubilità del pubblico e delle implicazioni in termini economici e logistici della costruzione di simili apparati.

Il secondo capitolo affronta invece il periodo della sperimentazione e delle prime produzioni italiane, partendo dalla palestra del documentario per arrivare ai lungometraggi di finzione. Un periodo che copre la seconda metà degli anni Cinquanta e che si definisce secondo il «paradigma della sperimentazione tecnologica», durante il quale avviene uno «spostamento di attenzione della nostra cinematografia dalla tecnologia alla rappresentazione» (pag. 190). Il capitolo si conclude con l’analisi del terzo paradigma della rivoluzione widescreen: quello «della normalizzazione tecnologica» (1960-1963), che si contraddistingue appunto per la standardizzazione dello schermo largo e l’avvento del Techniscope, apparato che sancisce la definitiva messa in soffitta del formato academic.

Nel terzo capitolo Vitella analizza sei film italiani di quel periodo realizzati per lo schermo panoramico. Dal fortunato documentario Continente perduto (Leonardo Bonzi, Enrico Gras, Giorgio Moser, 1955) all’adattamento cinematografico di Racconti romani (Gianni Franciolini, 1955) di Moravia, passando per il gigantismo delle Fatiche di Ercole (Pietro Francisci, 1958) e il melodramma giovanilistico de Le diciottenni (Mario Mattoli, 1955), fino a due capolavori come L’avventura (Michelangelo Antonioni, 1960) e Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964). L’autore imbastisce un’analisi attenta, sfruttando dati stilometrici e conoscenze tecniche che si rifanno agli studi di Barry Salt e che mettono in risalto la profonda interconnessione tra tecnologia e stile.

Rimanendo fedele al concetto di storiografia della crisi, nell’Epilogo Vitella mette in evidenza come nonostante sul finire degli anni Sessanta la rivoluzione widescreen possa dirsi conclusa, essa non comporti una sclerosi delle dinamiche e delle rielaborazioni dei formati. Il successo della rivoluzione sta nell’aver usurpato l’academic dal ruolo di standard di produzione e rappresentazione, innescando poi la nascita di nuove dinamiche: non viene mai meno infatti un panorama in cui «le diverse tecnologie in commercio si contendono il mercato offrendo finalmente delle prestazioni variabili in accordo alle rispettive differenze di costo e performatività» (pp. 192-193).


di Matteo Citrini


La copertina

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