Pubblichiamo di seguito la “Presentazione” al volume di Francesca Simoncini e la “Testimonianza” di Claudio Magris.
Studiare gli
attori è difficile. Arduo ricostruire la qualità e leredità artistica della
loro attività, riappropriarsi di un loro esclusivo “punto di vista”,
evidenziare la qualità e lo stile del loro linguaggio scenico. Anche quando
fortemente connotato questultimo infatti si inserisce, e quindi anche un poco
si disperde, in contesti produttivi e operativi di natura collettiva e
commerciale che ne travalicano, spesso ne nascondono, loriginale sostanza.
Arte plurale per eccellenza quella del teatro implica lesercizio di una
condivisione di mestieri, di conoscenze, di creatività che si sommano, si
confondono, prevaricano luna sullaltra, occultano la genesi e la paternità
individuale della creazione artistica. Tra tutte le arti che concorrono alla
realizzazione di uno spettacolo quella dellattore è stata considerata nel
tempo la più debole, la più condizionabile, la meno decifrabile, la più
effimera e, anche per questo, ha finito con lessere la meno celebrata e la
meno studiata dalla cosiddetta cultura ufficiale e accademica. Schiacciata
dalla volontà di affermazione, talvolta arrogante e prepotente, di autorialità
altre – quella dei drammaturghi prima, dei registi poi – è apparsa lanello più
fragile e transitorio delle realtà spettacolari che hanno attraversato i
secoli. Di queste, invece, ha sempre determinato, non solo la vitalità e la
sostanza ma, ancora di più, la semplice esistenza.
Elemento
fondante di ogni spettacolo dal “vivo” lattore è in effetti il vero
depositario di un “sapere” e di “un “mestiere” che, nei tempi lunghi della
storia, ha saputo rigenerarsi pur conservando forti legami col passato e
continuando a trasmettere e ad alimentare tradizioni e culture. Lattore però,
calato il sipario, spesso non lascia traccia di sé, delle sue visioni, delle
sue performances e, anche quando queste ultime sono documentate più di altre
riluttano ad essere fissate su carta. Diventa allora difficile ricomporle o,
anche più semplicemente e umilmente, descriverle. Lo studioso che si pone
questo compito è dunque costretto a procedere attraverso pericolose e scivolose
approssimazioni. «Un mestiere costruito sullacqua» recita, non a caso, il
titolo di questo libro che è stato opportunamente scelto dallautrice scavando
tre le dichiarazioni dellattore Tino
Schirinzi.
Rosmersholm, Teatro Regionale Toscano-Centro Teatrale Bresciano, 1979-80, regia di Massimo Castri © Tito Alabiso (Archivio CTB Centro Teatrale Bresciano)
Consapevoli,
luno dellessenza vischiosa di unarte fluida, inafferrabile, priva di
confini, trasparente, laltra della conseguente difficoltà di raccontarla.
Eppure questo racconto alla fine è nato ed è ora pubblicato. Affonda le sue
radici e la sua composizione nella stesura di una tesi di laurea di primo
livello affrontata con particolare passione, intelligenza e serietà dalla
candidata. Doti essenziali e del tutto personali alle quali lUniversità di
Firenze e il Corso di Laurea in Progettazione e Gestione di Eventi e Imprese
dellArte e dello Spettacolo hanno saputo fornire un rodato metodo di lavoro.
Da molti anni è infatti attivo a Firenze un laboratorio sullo studio degli
attori che ha dato vita a un database relazionale, lArchivio Multimediale
degli Attori Italiani (AMAtI), consultabile on-line (http://amati.fupress.net). Il progetto è
nato dalla volontà di ricostruire, con metodo scientifico e moderni mezzi di
comunicazione, la storia degli attori italiani dal Cinquecento fino ai nostri
giorni e di dare corretta collocazione a biografie di artisti del teatro che,
vissuti nel contesto sociale, artistico, organizzativo del proprio tempo, hanno
contribuito alla creazione e allevoluzione della pratica scenica italiana
considerata nella sua dimensione operativa e storica. Uno dei presupposti
imprescindibili per lattendibilità e la ricostruzione di queste biografie è il
ricorso ai documenti, siano essi di natura cartacea (testimonianze, copioni,
memorie, contratti, lettere, ecc.), iconografica o audiovisiva.
Di questo insegnamento fa tesoro il libro di Alla Munchenbach che attenua il rischio insito nella labilità dello
studio dellarte dellattore bilanciandola con argomentazioni fondate sul
reperimento e sulla consultazione di una ricca selezione critica di fonti
primarie, oggi depositate in vari e prestigiosi istituti di conservazione. A
queste lautrice aggiunge un buon numero di preziose testimonianze da lei
stessa, con oculatezza e pazienza, selezionate e prodotte. Quanto basta per
ricostruire un profilo che non scade mai nella semplice aneddotica e che si
sforza di essere il più possibile puntuale e fedele. Il resto del contenuto e
della godibilità del libro lo fanno la sincera passione dellautrice e
lindubbia qualità artistica ed esistenziale dellattore di cui viene proposto
il ritratto.
di Francesca Simoncini
Per questa testimonianza ci incontriamo la mattina del 25 febbraio 2016 al Caffè S. Marco di Trieste. Lo Stadelmann fu la prima messa in scena di un mio testo teatrale. Tino, era perfetto per il ruolo, con questa sua capacità di essere contemporaneamente vitale, sensuale, delicato, smarrito, gaglioffo, ubriacone… e difatti si era innamorato del personaggio sin da subito. Quando andai a trovarlo a casa sua per parlagli, circa un anno prima del debutto, mi resi conto che lui aveva capito il testo perfino meglio di me e aveva colto a pieno il senso dellinsufficienza di vivere del personaggio. Pensi che, per questo ruolo, erano stati presi in considerazione, da parte del teatro, attori tra i più disparati, da Gabriele Lavia a Enrico Montesano… poi, non mi ricordo come, pensammo a Schirinzi, forse fu Egisto Marcucci stesso a suggerirlo. Ai quei tempi non avevo agenti, portai personalmente il testo qui al Rossetti di Trieste per essere valutato. Avevo già lavorato per il teatro come traduttore. Ad esempio avevo tradotto Ibsen per Mario Guazzelli, Il Nemico del Popolo; avevo lavorato per Beppe Fenoglio come traduttore e come co-regista nella messa in scena di alcune opere ibseniane. Esperienza che aveva costituito un mio primo approccio alla regia e al testo teatrale. Seguivo il teatro e andavo a vedere gli spettacoli. Fin da studente a Torino, lo avevo seguito in modo affascinato, dai tempi del primo Strehler con cui per altro ho avuto un ottimo rapporto, essendo anche concittadini. In affetti quando pubblicai Stadelmann nell88, si era proposto per curarne la regia, ma poi la cosa non andò in porto in quanto lui fu lungamente impegnato a realizzare il suo Faust. Sta di fatto che Tino, nonostante fosse allinizio di quello che poi, come sappiamo, fu il suo calvario, e nonostante la voce stanca, aveva lautorevolezza fisica del grande attore che portava a rendere significativo ogni suo gesto. Negli ultimi tempi la voce gli era molto peggiorata e, infatti, nella scena iniziale che è quasi mormorata, aveva il microfono. Tuttavia possedeva una varietà interpretativa che riusciva a farlo essere contemporaneamente così delicato, così trasognato, ma anche ruvido soldataccio volgare, sporco e sudato. Raro, molto raro… ho ritrovato tali capacità poco sovente nella mia vita. Posso dire che Herlitzka aveva doti e intelligenza simili a Tino, lui e pochi altri. Non è comune trovare tutta questa sostanza in un uomo! Era uno che sceglieva ciò che voleva fare, una persona di grande personalità, decisa. Come autore e come un vero dramaturg, alla maniera tedesca, ho seguito le prove dal primo allultimo giorno, e ho accompagnato poi lo spettacolo anche in molte repliche di altre città. È bellissimo vedere nascere a un certo punto la struttura di una drammaturgia teatrale sotto i propri occhi. Un momento magico quello in cui da qualche cosa di informe, per quanto interessante e suggestiva, nasce lo spettacolo vero e proprio, magari ancora da perfezionare ma con già il ritmo e la struttura organica. Ricordo ancora la sensazione che ho provato quando ciò è accaduto lì al Rossetti. Pensai: ecco cè, lo spettacolo è nato! Così come succede nello scrivere un libro, quando la confusa raccolta di appunti, dati e schemi, acquista una struttura e diventa romanzo. E devo dire che Tino, senza con questo minimamente sminuire Marcucci, sapeva essere a capo dello spettacolo, occupandosi non solo della sua parte ma intervenendo anche sulle scelte che riguardavano lo spettacolo nella sua interezza. Va inoltre detto che Schirinzi aveva lincarico di fare il capocomico in tutto e per tutto quando Marcucci non era presente durante la tournée, altro motivo da cui si evince quanto il suo ruolo fosse fondamentale in questo spettacolo. Discutevamo sempre insieme le scelte, questo anche con la bravissima Barbara Valmorin; erano attori completi che non si limitavano a lavorare sulla loro parte ma avevano uno sguardo dinsieme, a tutto tondo. Discutevamo coralmente la realizzazione delle singole scene e non ho mai sentito nel loro intervento una prevaricazione o uno stravolgimento del mio testo. È stato un arricchimento e uno scambio reciproco, un rapporto paritetico. Lattore deve avere sempre lultima parola su cosa e come dire una certa frase, è lui il trait d'union tra il pubblico e il testo. Deve essere lui a dirigere, purché limpalcatura drammaturgica sia rispettata, ovviamente.
Con lamore non si scherza, Teatro Stabile dellAquila, 1970-71, regia di Aldo Biagini © Cesidio Gualtieri (Ufficio Comunicazione Teatro Stabile dAbruzzo)
Le critiche furono sempre entusiaste della mimesi interpretativa di Tino, ma forse, a causa di motivi organizzativi, lo spettacolo non ebbe il seguito che avrebbe potuto avere. Eppure credo che sia il regista che Tino ce la misero tutta e furono sublimi nel mettere in scena il mio racconto, ma la pièce, nel complesso, ebbe meno fortuna dei miei lavori teatrali successivi. Forse pagò lo scotto di essere il primo. La storia dello Stadelmann è reale come accade spesso nei miei romanzi. Come diceva Svevo: «la vita è originale, più originale di quanto possa inventare non solo io, ma nemmeno Dante Alighieri!». «Truth is stranger than fiction», diceva Mark Twain. Ed è vero, se ci pensiamo nella vita di tutti noi, pubblica e privata, ci sono degli aneddoti così particolari, così belli, brutti, imbarazzanti, ridondanti che a raccontarli a volte bisogna ridurre per non rischiare di diventare addirittura kitsch e di fare una “letteraturaccia sentimentaloide”. Ne consegue che il materiale tratto dalle storie vere è un patrimonio straordinario da trattare con cura e attenzione. Stadelmann è stato realmente il servitore e segretario di Johann Wolfgang von Goethe e pare che abbia avuto un certo ruolo nel suggerire alcuni esperimenti nella cosiddetta Teoria dei Colori, tanto amata dal grande letterato tedesco. Ma di questo non vi sono documenti tangibili, solo illazioni, tuttavia per me è stato un pretesto per costruire il personaggio. Poi di sicuro sappiamo che fu licenziato perché beveva troppo, e sappiamo altresì che finì i suoi giorni in un ospizio per poveri, ormai ridotto a un rottame duomo ma ancora vitale e lucido. Altra cosa certa è che fu invitato a questa cerimonia nella città di Francoforte, in memoria del maestro, in quanto uno tra i pochi testimoni ancora viventi e che poi, tornato allospizio, in seguito a questo giorno di gloria, dopo due settimane decise di togliersi la vita e impiccarsi. La storia mi ha incuriosito e ho cercato di immaginare e ricostruire questo breve periodo, meno conosciuto, della sua vita. Invece la questione del vitalizio che gli viene offerto alla fine credo sia stata una mia invenzione, non ricordo se basata su qualche indizio reale, che in parte voleva rendere ancora più significativa la sua scelta. Uninsufficienza di essere, un malessere esistenziale, senza voler diventare patetico. Io e Tino lo abbiamo inteso come un uscire di scena perché ormai non gli andava più di vivere. Un togliersi la vita come un gesto paradossalmente vitale che non voleva fare pena. Una vitalità capace di rendere propositivo anche un gesto di rinuncia, una scelta forte e consapevole. Via! Fuori! A me non interessava affatto fare
Geothe visto dal suo servitore. Non era così che la intendevo, anche perché
Stadelmann non è succube del suo padrone, anzi spesso sfrutta questo legame a
suo vantaggio. Daltro canto la presenza della voce di Goethe e del suo volto
stilizzato è in parte una simbolica pretesa da parte del maestro di essere il
regista di tutto, di poter rompere le scatole e intervenire nella vita del
servitore anche nellospizio. Ma Stadelmann gli resiste e non ne è né umiliato,
né impressionato pur ammirandolo; riconosce la grandezza del suo padrone
tuttavia ne è complice in tutto e per tutto. In definitiva si tratta di un
rapporto tra pari, se pur su piani gerarchici differenti. Si tratta di un
dialogo, e in un dialogo non deve esistere un ruolo più grande dellaltro.
Stadelmann è libero anche di fronte a Goethe e la sua uscita di scena io lho
intesa proprio come un gesto di affermazione della sua libertà. E Tino
transustanziava questa mia idea facendola sua. Io credo che ci fosse in questa
mescolanza di ruvidezza e affettuosità, in questa robustezza esistenziale, in
questo piglio spirituale e fisico al contempo, in questa capacità di viver la
vita veramente come un marinaio sul ponte di una nave che non si spaventa
davanti alla tempesta, in questa sorta di autenticità vitale, un insieme di
elementi che erano profondamente congeniali a Schirinzi e che hanno fatto sì
che si interessasse al personaggio. Non credo affatto che la spinta sia stata
Goethe, che potrebbe sembrare scontato, mentre lui come me, era affascinato da
questo modo di essere, quella capacità tipica dei bambini che non hanno nessun
problema ad essere liberi appunto nemmeno davanti al presidente degli Stati
Uniti. Un piglio affettuoso verso la vita, libero. Come recita il Vangelo: «Se
non sapremo diventare come i bambini non entreremo nel regno dei cieli».
Unaffinità dunque quella di Schirinzi verso Stadelmann non meramente
intellettuale e ideologica ma quasi di pelle, fisica, spirituale che però non
gli impediva minimamente di recitare e tenere la distanza giusta e necessaria
per un attore. Inoltre va detto che cera in lui, se mi passa lespressione,
anche una componente forte, nobilmente e vitalmente meridionale, che non saprei
definire meglio; un modo di vivere con scioltezza, direi.
Oltre allattore Tino poi era un
uomo gradevolissimo, colto, di compagnia. Mi ricordo delle sere indimenticabili
a casa mia, non solo perché lui e Desy
cantavano i loro pezzi fantastici (Maremma
Amara e Cicirinella) ma anche
perché poi si parlava di svariati argomenti: del senso della vita, di
religione, di innamorarsi e disamorarsi, dimenticandoci perfino del nostro
lavoro. Sarei megalomane a chiamare questo rapporto, durato poco più di un
anno, unamicizia, ma al tempo stesso posso dire che fu un legame intenso,
vero, reale e assolutamente reciproco.
Non ho avuto modo di conoscere
meglio la sua sfera privata. Ma di sicuro ho potuto toccare con mano la
straordinaria unione che aveva con Desy, che era fortemente percepibile, assai
profonda, assai bella e assai libera. Forse una delle unioni più intense che
abbia avuto modo di conoscere nella mia vita. Una grande fortuna per loro
essersi incontrati! Desy, come sa, curò le musiche dello Stadelmann ma non
ricordo di averli mai sentiti discutere in scena. Sul lavoro erano molto
professionali e rispettosi luno delloperato dellaltro. Il loro suicidio mi
ha molto sorpreso. Certamente credo che sia stato una decisione molto
ponderata, non un cedimento momentaneo, bensì un gesto risoluto e forte. Ma non
ho mai pensato a Schirinzi come a uno che amasse la morte, a differenza di
altri personaggi per cui già dal come hanno condotto la vita si potrebbe
presagire il suicidio. Perciò, al di là di quanto significhi averlo perso, che
è come una mutilazione, non provo pietà per Schirinzi, poiché penso che abbia
vissuto la sua vita in modo completo, intenso, nella pienezza della esistenza.
Quello invece che fa tristezza e desta una profonda solidarietà è la sua
malattia che lo ha tanto limitato nella sua arte e che tanta parte ha avuto
certamente nella sua decisione.
Mi ricordo quella notte quando
mio figlio Paolo, che è il più
piccolo, dopo aver sentito la notizia in tv è entrato nella stanza mia e di mia
moglie per darci la notizia del suicidio… ero stato da poco a vederlo
nellOblomov qui a Trieste. Non potevo crederci. Quando si perdono persone care
nella vita è un po come perdere un braccio!
di Claudio Magris
|
|