Edward Gordon Craig, oggi. Note sul convegno del cinquantenario
Pubblichiamo qui l'articolo di presentazione di Renzo Guardenti al volume.
È
quasi spontaneo, nel presentare gli atti del convegno
Per Edward Gordon Craig nel cinquantenario della morte (1966-2016)
– svoltosi a Firenze presso il Teatro della Pergola il 24 e 25 novembre 2016 – tornare
con la memoria a un altro convegno di quasi trent'anni fa,
Gordon Craig in Italia,
organizzato
da
Gianni Isola,
Lia Lapini,
Gianfranco Pedullà e
Alessandro
Sardelli. Il convegno, tenutosi a Campi Bisenzio nel gennaio 1989, fu
l'episodio conclusivo di una triade di eventi ideata da Pedullà, intitolata
Per un teatro vivente: Gordon Craig in
Italia, e che comprendeva anche un'esposizione e uno spettacolo.
[1] Originate non in occasione di specifiche ricorrenze, queste iniziative furono
senza dubbio il frutto di una tensione culturale che ancora alla fine degli
anni Ottanta del XX secolo aveva come oggetto di indagine la nascita della regia
teatrale europea tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento,
affrontata secondo la precisa coscienza metodologica della necessità di
iniziare a storicizzare esperienze e fenomeni che si erano ormai lasciati alle
spalle una consistente sedimentazione documentaria, ma che, al tempo stesso, seppur
appartenenti a un passato che si faceva via via più lontano, continuavano a emanare
una sorta di energia propulsiva capace sia di attirare il sempre più insistito interesse
degli storici, sia addirittura di suscitare ampi dibattiti tra gli stessi
teatranti, dando luogo talvolta a fruttuose contaminazioni tra storiografia e
prassi sceniche. Anni eroici, leggendari e forieri di fecondissime contraddizioni
quelli dell'avvento della regia teatrale; anni ugualmente eroici quelli del
ventennio Settanta-Ottanta del secolo appena trascorso, quando gli studi sullo
spettacolo stavano consolidando la propria fisionomia grazie alla messa a punto
di specifiche e originali metodologie di indagine che si andavano progressivamente
affinando proprio in virtù della molteplicità degli oggetti di studio.
Di
questo fermento storiografico gli atti del convegno su Craig a Firenze, curati
da Isola e Pedullà, possono essere considerati una tangibile testimonianza.
Basta sfogliarli rapidamente e percorrere il palinsesto dei partecipanti per rendersene
conto. Strutturati in due parti disposte lungo il suggestivo crinale di una
serie di ritratti fotografici di Craig realizzati dal figlio David Lees, il grande fotografo della
rivista inglese «Life», gli atti del convegno fiorentino affrontano la figura
di Edward Gordon Craig da un lato dal
punto di vista dei suoi rapporti col teatro italiano del suo tempo e dall'altro
da quello della sua “idea di teatro”.
Convergono,
sulla prima linea di intervento, presenze di assoluto rilievo, a cominciare da Ferruccio Marotti – che è stato tra i
primi esegeti italiani e personale interlocutore di Craig già alla fine degli
anni Cinquanta e a cui va il merito di aver contribuito alla diffusione degli
scritti del grande regista inglese all'inizio degli anni Settanta del Novecento
–, Laura Caretti, Giovanni Attolini e poi la serie dei
giovani studiosi di allora ricordati in apertura, e ancora la testimonianza di Maria Signorelli – figlia di Olga Resnevič Signorelli, la celebre
biografa della Duse – sulla scorta della
lunga relazione epistolare intrattenuta con l'eclettico uomo di teatro.
La
seconda parte del volume indaga il teatro di Edward Gordon Craig sulla base di
una pluralità di sguardi che unisce, significativamente, il tempo
dell'esperienza craighiana a quello della piena contemporaneità. Se gli
interventi di Philippe Ivernel, Georges Banu, Monique Borie e Carolyn A. Sheehy affrontano la complessa
personalità artistica del regista secondo una prospettiva di
contestualizzazione storica, di esegesi teorica, di ricognizione documentaria,
il contributo di Federico Tiezzi dal
canto suo proietta la visione teatrale di Craig nella prassi quotidiana delle
proprie scelte registiche e ne raccoglie in certa misura l'eredità,
prolungandone così l'influenza anche su ciò che potremmo definire, con un'espressione
cara al regista inglese, il teatro dell'avvenire.
Trent'anni
fa. Sono un niente, se visti nella lunga durata della storia; ma sono altresì
la misura di una distanza siderale, se pensiamo ai rivolgimenti che li hanno
progressivamente interessati modificando radicalmente le tradizionali categorie
della conoscenza, all'incessante evoluzione degli apporti tecnologici, alla
ridefinizione canoni estetici, all'avvicendarsi di differenti pratiche
artistiche e spettacolari. Trent'anni che proprio per questa fuga in avanti
moltiplicano esponenzialmente la percezione della distanza temporale che ci
separa dal mondo di Edward Gordon Craig. Una distanza colta nelle sue
inquietanti potenzialità già da Gianni Isola e Gianfranco Pedullà
nell'introduzione agli atti del convegno del 1989, quando la fuga in avanti appena
menzionata era ancora nella sua fase incipiente, ma già si avvertiva
conseguentemente la necessità di precisare le ragioni del perché proprio Craig, lì e allora:
Ripensare l'opera di Craig significa, ancora oggi,
rilanciare l'urgenza di riparlare del teatro, della sua qualità, della sua
motivazione, dei suoi luoghi. In un'epoca di transizione, di forti cambiamenti
sociali appare opportuno ripercorrere criticamente esperienze come quelle dei
riformatori teatrali del primo Novecento. Oggi la situazione del teatro mostra
tratti diversi da quelli nei quali si era sviluppata la ricerca di Craig
all'inizio del secolo. Operiamo e viviamo in un mondo in cui, con l'affermarsi
di nuovi sistemi di comunicazione, le società cominciano a mescolarsi e le
distanze tra i linguaggi si riducono. Nuove conquiste vivono accanto a
privilegi antichi e a vecchie ingiustizie. Un mondo diverso, di qualità
imprevedibile, dominerà il prossimo secolo, il prossimo millennio.
Oggi il problema del rinnovamento, della ricerca,
dell'avanguardia artistica – in una società di massa in rapida
tecnologizzazione – si pone in termini completamente diversi rispetto alle
ansie di assolutezza, di universalità, di purezza che avevano segnato l'esperienza
di protagonisti come Craig. Possiamo qui misurare la distanza che ci separa da
quell'intensa tensione «riformatrice» che aveva caratterizzato, non solo nel
teatro, gli esordi del Novecento. Craig come Appia, come Brecht, come Artaud:
per tutti lo stesso sforzo di liberare il teatro vivente dal teatro (morente).
[2]
Le
parole di Isola e Pedullà rivestono ancora oggi carattere di attualità, un'attualità
resa ancor più urgente e forse anche sofferta dal compimento di ciò che nella
mente dei due studiosi all'epoca assumeva i contorni di una vaga, seppur
inquietante prefigurazione.
Ho
fin qui insistito sul convegno craighiano del 1989 non certo per quella sorta
di attitudine retrospettiva che cerca di giustificare l'oggi cercando di
acquisire una presunta autorevolezza appoggiandosi a eventi del passato (è
questa una delle tante malattie che affliggono le discipline dello spettacolo
al pari di quella che risolve il campo di indagine nella più immediata
contemporaneità: l'ottuso vezzo antiquario che si contrappone all'altrettanto
ottusa esaltazione del presente) ma perché quel lontano convegno rappresenta,
almeno negli studi italiani un imprescindibile punto di riferimento.
Nei
trent'anni che ci separano dal convegno del 1989 il progredire degli studi non solo
ha permesso la conoscenza di aspetti inediti del pensiero e della carriera di
Craig, ma ha addirittura modificato significativamente il modo di guardare al
regista inglese, ora affrontato attraverso prospettive particolarmente attente
al contesto culturale in cui egli ha operato, ora studiato cercando di far luce
sui meccanismi più reconditi del suo lavoro teorico e creativo, in una parola
quello che potrebbe essere definito come il
backstage
della sua visone teatrale. Non è certo questa la sede per una ricognizione esaustiva
della letteratura critica craighiana, e quindi mi limiterò a rinviare,
specialmente per gli studi non italiani, a quelli citati nei contributi di
questo volume, segnalando piuttosto alcune nuove acquisizioni successive al
convegno fiorentino del cinquantenario, anch'esse certamente occasionate dalla
ricorrenza della scomparsa del regista inglese. Si tratta di lavori che
affrontano la figura di Craig a partire dai sistemi di relazioni con cui egli è
entrato in contatto, come nel caso di un articolo di
Min Tian dedicato al pittore californiano
Michael Carmichael Carr e a sua moglie
Catarina Elisabeth che negli anni del
soggiorno fiorentino coadiuvarono aiutarono Craig nella elaborazione del suo
Model stage,
[3] oppure riaffrontano le tematiche cruciali del lavoro di Craig secondo
prospettive inedite, come il recentissimo contributo di
Didier Plassard La velocità del cavallo e quella della
lumaca: teorie e pratiche della Übermarionette in Gordon Craig,
[4] ma si segnala anche
Action, Scene, and Voice:
21st-Century Dialogues with Edward Gordon Craig, numero monografico di «Mime
Journal» a cura di
Jennifer
A. Buckley e
Anne Holt,
[5] in
cui compaiono tra gli altri contributi di due studiosi presenti al convegno
fiorentino,
Harvey Grossman e
Patrick Le Boeuf, mentre sul versante
italiano si distingue il recentissimo e interessante volume di
Paola Degli Esposti,
La Über-Marionnette e le sue ombre. L'altro
attore di Edward Gordon Craig.
[6]
Mi preme tuttavia ricordare anche
l'immediato precedente di questi atti sulle pagine di «Biblioteca Teatrale», il
numero monografico
I teatri di Craig
curato da
Nicola Pasqualicchio e
Monica Cristini,
[7] dove compaiono i contributi di diversi studiosi che avrebbero poi partecipato
al convegno fiorentino del 2016, a cominciare dagli stessi Pasqualicchio e
Cristini, i cui articoli si sono soffermati sul rapporto tra Edward Gordon
Craig e
Danilo Lebrecht a partire
dai loro carteggi, conservati presso la Biblioteca Nationale de France e il
Fondo Montano la Biblioteca Civica di Verona, presentato nel contributo di
Agostino Contò, e di cui il volume
presenta un'ampia selezione. Di particolare interesse, specie per gli sviluppi
presentati nel convegno del cinquantenario, il saggio di
Lorenzo Mango il quale – sulla scorta del suo fondamentale volume
L'officina teorica di Gordon Craig[8]
nel quale ripercorre con acume e rigore filologico la genesi di
The Art of the Theatre nel quadro della
temperie culturale primonovecentesca – avvia una riflessione su Craig e il
Moderno; mentre Harvey Grossman e Ferruccio Marotti, rileggono la vicenda
craighiana secondo l'ottica di due testimoni oculari: il primo, antico allievo
di Craig negli anni Cinquanta, mette in rilievo le diverse istanze artistiche e
culturali alla base della formazione e dell'idea di teatro del Maestro; Marotti,
che può vantare una lunga frequentazione con Craig ed è stato l'apripista degli
studi craighiani in Italia, rilegge invece le vicende non sempre lineari della
documentazione su Craig, anche alla luce della dei prolungati soggiorni a Vence
in cui poté entrare in contatto con materiali di prima mano. Infine, Paola
Degli Esposti entra nel merito di aspetti che in certa misura sono ricorrenti
anche nelle pagine di questo volume, quelli relativi alle strategie di
occultamento messe in atto da Craig nel suo percorso artistico, mentre
Donatella Orecchia affronta
l'esperienza di Craig a partire dalle influenze esercitate su di lui dalla
tradizione attorica italiana, da
Tommaso
Salvini a
Giovanni Grasso, dalla
Duse a
Ettore Petrolini.
Veniamo quindi ai contributi del
convegno Per Edward Gordon Craig nel
cinquantenario della morte (1966-2016). Frutto della collaborazione tra il
Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo
dell'Università degli Studi di Firenze, il Gabinetto Scientifico Letterario
G.P. Vieusseux, il British Institut of Florence, il Teatro della Toscana –
Teatro della Pergola e la Compagnia Lombardi Tiezzi, il convegno ha affrontato
la figura di Edward Gordon Craig strutturandosi in una serie di interventi che
si sono disposti, si potrebbe dire naturalmente, attorno ad alcuni dei
principali ambiti anche concettuali emersi dal lungo dibattito storiografico e
critico degli ultimi decenni. Tra questi, anche se non è facile dipanare la
matassa della teoresi e delle pratiche del regista inglese, si distinguono
Craig e l'attore, nel quadro della teorizzazione sulla Supermarionetta; i suoi
rapporti con l'architettura e le arti figurative, specialmente per ciò che
riguarda la sua attività grafica; Craig e la modernità, in una prospettiva di
contestualizzazione della sua teorizzazione teatrale e del suo fare artistico;
le scene di Craig: quelle teorizzate, quelle realizzate, oppure quelle che
hanno preso forma nella sua opera grafica e nella sua quasi maniacale
attitudine di collezionista di immagini; Craig e l'Italia, in particolare
Firenze e gli anni del soggiorno in Liguria.
Il contributo con cui si aprono
gli atti del convegno del cinquantenario (
Craig and Isadora: Their
Artistic Relation), anche se non si presenta nella
tradizionale veste del saggio di carattere scientifico, assume tuttavia
un'importanza particolare: ne autore è Harvey Grossman, attore e regista statunitense,
che del magistero di Craig è stato testimone diretto in quanto suo allievo e
assistente verso la metà degli anni Cinquanta, e che può essere considerato
come uno dei principali divulgatori della lezione del Maestro. Grossman
affronta con una notevole carica suggestiva uno dei concetti cardine della
riflessione teorica e dell'intera parabola artistica di Edward Gordon Craig,
quello del movimento, visto attraverso la lente del sodalizio sentimentale e
artistico tra il regista inglese e
Isadora
Duncan. Il percorso tracciato dall'antico allievo di Craig si configura
come una vera e propria operazione di carattere drammaturgico, facendo agire Craig
e la Duncan attraverso la messa in sequenza di frammenti dei loro scritti.
Grossman dà voce a Edward e Isadora mediante un dialogo a distanza, estrapolando
da
L'arte del teatro di Craig e da
La mia vita, la biografia artistica
della danzatrice californiana, quei passi in cui i due artisti si interrogano
sulle radici e sull'essenza più profonda del teatro e le individuano appunto
nel movimento. Questa specie di duetto tra Craig e la Duncan, intervallato dalle
rapide interpolazioni con cui Grossman chiarisce il loro pensiero, consente di far
emergere distintamente la profonda influenza esercitata dalla Duncan. Non si
tratta tanto di una generica fascinazione artistica quella subita da Craig, quanto
piuttosto di un orientamento significativo della propria visione teatrale: si
può certamente affermare che nel processo che porterà a piena maturazione
l'idea di teatro del grande regista inglese, il rapporto con la Duncan diventa
elemento generatore di una concezione teatrale che, in parallelo alla crescente
consapevolezza dell'inaffidabilità del corpo dell'attore sulla scena, vede nel
movimento l'elemento originario e l'essenza più profonda del teatro. Si tratta
di aspetti certamente non secondari nel panorama generale dell'esperienza
artistica di Gordon Craig e lo dimostra l'attenzione che vi è stata rivolta in
questi ultimi anni, come si evince anche dai recenti contributi di
Franco Ruffini,[9] Olga Taxidou[10] e
quello precedentemente citato di Paola degli Esposti.
[11]
Della
complessità della figura di Edward Gordon Craig rende significativamente conto
il saggio di Lorenzo Mango (
Note per uno
studio sul rapporto tra Edward Gordon Craig e il Moderno), avviando
un'ulteriore riflessione su una tematica che era stata declinata in altra forma
nel citato numero di «Biblioteca Teatrale» curato da Nicola Pasqualicchio e
Monica Cristini.
[12] Questa riflessione non può prescindere dal contesto culturale di cui è
debitrice la formazione di Craig e in cui il giovane uomo di spettacolo si
immerge e attinge per vie dirette e indirette, oscillando tra l'urgenza del
nuovo e della Modernità e categorie concettuali, estetiche o formali di più
evidente matrice ottocentesca. La rete di relazioni intrattenute da Craig si
colloca grosso modo nello stesso arco cronologico delle vicende oggetto
dell'indagine sull'officina teorica craighiana. Qui, secondo una logica di
maggiore approfondimento, Mango costruisce un percorso teso ad illustrare la
fitta rete di influenze culturali, di rapporti personali, di suggestioni
artistiche che presiedono al formarsi della formulazione teorica della visione
teatrale del grande regista inglese, secondo una prospettiva di analisi che
necessariamente deve oltrepassare i limiti della pura e semplice esperienza
teatrale primo-novecentesca per approdare ad ambiti artistici, culturali e
operativi capaci di concorrere a una efficace definizione della Modernità. Come
sempre accade, anche nel caso di Craig il teatro di per sé non è sufficiente a
definire se stesso o a chiarire i fondamenti alla base di modelli, prospettive
teoriche e prassi sceniche e attoriali: essenziale, in questo senso, il
rapporto col mondo delle arti figurative e l'architettura, quest'ultimo sulla
base anche delle profonde implicazioni personali derivate dalla relazione col
padre
Edward Godwin. Il percorso
tracciato da Mango mette in luce che l'orizzonte culturale di Craig, in quanto
figlio del proprio tempo, si inserisce pienamente nella temperie culturale
tardo-ottocentesca e primo-novecentesca caratterizzata da movimenti quali Arts
and Crafts, dominati da figure che nella formazione della personalità artistica
e della visione teorica di Craig ebbero un particolare rilievo come
William Morris, e soprattutto
John Ruskin, di cui Mango evidenzia
efficacemente l'influenza per ciò che pertiene la presa di distanza di Craig
dalla presenza soggettiva dell'artista e la ricerca di una Bellezza
idealizzante permeata di una forte spiritualità, il che spiega anche i non
infrequenti accenti mistici del regista inglese. Di non minore importanza il
rapporto con l'architettura, veicolato attraverso il legame con l'architetto
belga
Henry Van der Velde,
incontrato durante il soggiorno in Germania tra il 1904 e il 1905 per il
tramite del conte
Harry Kessler, cui
si aggiunge, per via indiretta, un ulteriore legame con le prassi
architettoniche. Un rapporto certamente fondato su reciproche suggestioni e
che, al di là dell'infruttuoso tentativo di creare un teatro a Weimar, consentì
a Craig di avviare un percorso teso alla ricerca di un'idea di Bellezza
pienamente incardinata sulla contemporaneità e alla radicale semplificazione
strutturale dello spazio scenico, anche sulla base di possibili analogie con
l'operato dell'architetto austriaco
Adolf
Loos, inserendosi così in un processo che, ancora oscillante tra
rinnovamento e tradizione, può essere definito come un Moderno di transizione.
La memoria del citato convegno
fiorentino del 1989 è il punto di partenza del contributo di Gianfranco Pedullà
(Gordon
Craig nel teatro europeo del Novecento) che
per certi aspetti può essere considerato come una sorta di pendant di quello di
Lorenzo Mango, nel senso che l'esperienza artistica di Edward Gordon Craig
viene riletta in una prospettiva tendente a mettere in luce come la visione
teatrale del regista inglese abbia influito sulle prassi sceniche degli anni
che lo hanno visto all'opera – e in questo senso Craig può essere considerato a
pieno titolo costruttore della modernità – e successivamente anche nelle
esperienze legate al secondo dopoguerra.
Ricorda
assai opportunamente Pedullà come Craig, costantemente in equilibrio tra la
tensione verso il teatro dell'avvenire e la piena consapevolezza della
tradizione, attraverso il progressivo prosciugamento del suo segno scenico
maturi la messa a punto della piena autonomia del linguaggio teatrale, vera
propria pietra angolare della sua impalcatura teorica. Pedullà rievoca le tappe
fondamentali di questo percorso, mettendo in evidenza come l'elaborazione del
pensiero craighiano passi anche dallo sviluppo di una vena polemica nei
confronti della drammaturgia a lui contemporanea e più in generale contro la
dimensione letteraria del teatro – significative a questo proposito le critiche
a D'Annunzio – finalizzata a
ribadire la necessità di mettere a fuoco le specificità della scrittura scenica
quale elemento fondante del linguaggio teatrale, anche sulla scorta di codici
linguisti elaborati nell'ambito di forme spettacolari del passato e tendenti
alla piena autonomia linguistica del teatro in quanto autonoma forma d'arte.
Da
qui la necessità della formazione professionale delle maestranze teatrali, da
qui la necessità di sperimentare anche in territori impervi nella speranza di
imporre, per così dire, la propria idea di teatro. Emblematica, secondo
Pedullà, la messa in scena dell'Amleto
al Teatro d'Arte di Mosca del 1912, sia dal punto di vista delle difficoltà di
relazione tra Craig e Stanislavskij,
sia da quello delle numerose influenze estetiche che permeano l'allestimento, e
che confermano, anch'esse, la grande attenzione rivolta da Craig al processo di
creazione artistica.
L'Amleto costituisce un punto di svolta
nel percorso craighiano, un percorso che porterà l'artista inglese a
peregrinare a lungo in Italia e in Europa: quelli tra gli anni Venti e Trenta
del Novecento sono anni di progressiva disillusione e di progressivo
isolamento, ma che non impediscono a Craig di coltivare rapporti con alcuni tra
i più importanti esponenti del teatro sovietico, quali Ejzenštejn, Mejerchol'd, Tairov, intrattenuti
anche nel corso di un viaggio a Mosca nel 1935. Anni intensi, di cui, come
rileva Pedullà, Craig percepiva consapevolmente la pesantezza derivante dal
precipitare della situazione politica in Europa e che porteranno nel corso del
tempo alla sua definitiva stabilizzazione in Provenza. Ma forse sono proprio
gli anni vissuti in Francia, dapprima a Parigi, poi nel sud del paese, in cui
Craig – ormai lontano dalla sua pur sporadica pratica della scena – intrattiene
rapporti con uomini di teatro come Étienne Decroux e Jean-Louis
Barrault e diventa il punto di riferimento di numerosi giovani artisti, a
cominciare da Peter Brook, fino a giungere, in epoca più recente, e per
via indiretta, a Tadeusz Kantor, il cui Teatro della Morte, come
sottolinea Pedullà, è certamente debitore della teoria della Supermarionetta.
La
rarefazione del segno grafico è una delle caratteristiche peculiari dei disegni
e dei bozzetti di Edward Gordon Craig che riflettono, in modo eloquente, la sua
idea di teatro, resa sensibile in spazi scenici anch'essi caratterizzati da una
sostanziale rarefazione compositiva, dominata dalla purezza delle linee degli
screens che scompartiscono lo spazio
scenico rendendolo disponibile, grazie al movimento dei suoi elementi
strutturali, a una gamma pressoché infinita di significati simbolici e
conferendogli anche un'aura di profonda sacralità. Questa dimensione – resa
possibile dalla dialettica compositiva tra la luce e gli elementi costituitivi
della scena – che traspare nell'opera grafica di Craig, diventa nel saggio di
Le Boeuf (
Edward Gordon Craig e l'aldilà) il territorio privilegiato per avviare una ricognizione
tendente a far emergere il rapporto del regista inglese col sacro e col divino.
Questa prospettiva di indagine appare pienamente legittima e pertinente: se
percorriamo ad esempio gli scritti teorici di Craig possiamo imbatterci con una
certa frequenza in allusioni o espliciti riferimenti a una dimensione
spirituale, mistica, alimentata da una continua ricerca, seppur vaga e indistinta,
di un rapporto col divino. Anche questo atteggiamento si inserisce a pieno
titolo in quella ricerca dei “princìpi” del teatro che, come ha messo bene in
evidenza
Mirella Schino in
recentissimo e fondamentale contributo, ha contrassegnato la generazione dei
maestri del teatro primo-novecentesco.
[13]
Questo
aspetto dell'universo craighiano in effetti non è marginale e c'è addirittura chi
ha impostato il proprio studio su Craig su questo asse. Mi riferisco in
particolare a un volume di Giovanni Attolini dedicato al maestro inglese che
arriva a delineare l'immagine di una sorta di Craig mistico, al punto da
intitolare il capitolo di aperture del libro
L'arte del teatro: una religione.
[14]
La
riflessione di Le Boeuf prende le mosse da due disegni conservati nel Fondo
Edward Gordon Craig del Département des Art du Spectacle della Bibliothèque
Nationale de France. Le presenze fantasmatiche che compaiono nei due disegni
inducono lo studioso francese ad avviare una ricognizione su Craig e l'aldilà,
intendendo con questo termine tutto ciò che pertiene alla dimensione del sacro
e del divino. Nonostante la sua natura aconfessionale Craig – evidenzia Le
Boeuf – intrattiene con questa sfera un rapporto costante, continuando a declinare
per altre vie e in altre forme quel rapporto col moderno che è stato oggetto
delle pagine di Lorenzo Mango. In quest'ottica, il saggio mette allora in
evidenza la rete delle filiazioni, dei prestiti, delle influenze, inanellando
una serie cospicua di punti di contatto con alcune delle più significative
personalità del panorama intellettuale e culturale anglosassone dell'Ottocento
e del primo Novecento, da William Blake
a Walt Whitman, da William Butler Yeats a Maurice Bucke, a John Paul Cooper. Da questo palinsesto di relazioni emergono
elementi che concorrono alla definizione della spiritualità del regista inglese,
che si manifesta secondo polarizzazioni che in progresso di tempo diventeranno veri
e propri leitmotiv costituitivi della teoresi craighiana: l'Immaginazione –
intesa come facoltà che permette all'uomo di creare Dio; il movimento come
principio regolatore del Cosmo; la marionetta, come entità di origini divine.
Tra i molti incontri che hanno
costellato la biografia artistica di Craig, quello con Eleonora Duse assume un
valore particolare. Della collaborazione tra queste due fortissime personalità
in occasione della messa in scena di
Rosmerholm
di Ibsen nel dicembre 1906 al Teatro della Pergola di Firenze sappiamo molto,
anche grazie al volume di
Francesca
Simoncini dedicato a questo allestimento.
[15] Qui, in queste pagine (
Le visioni scenografiche di Craig, il corpo della Duse e
il mestiere del teatro), la stessa autrice affronta
ulteriormente il medesimo episodio da un'angolazione diversa, cercando di
cogliere, al di là del dettaglio storico, le modalità attraverso le quali la Duse
avviò raffinate strategie di avvicinamento nei confronti di uno dei più
interessanti giovani sperimentatori della nascente regia teatrale, nonché le dinamiche
più o meno evidenti sottese a questa relazione tanto potenzialmente fruttuosa
quanto, per certi aspetti, apparentemente paradossale. Sarebbe infatti
estremamente riduttivo, ci fa capire Simoncini, considerare il rapporto tra la
Duse e Craig nei termini di un conflitto tra la più grande attrice del teatro
italiano e uno dei più intriganti esponenti di quella che sarebbe diventata la
generazione dei maestri del teatro del primo Novecento. Il punto centrale della
relazione tra i due non sta infatti nella contrapposizione tra vecchio e nuovo,
tra grande attrice e giovane regista, quanto piuttosto in una pressoché
identica tensione di ricerca e di rinnovamento del teatro del loro tempo. Di Craig
conosciamo l'excursus teorico che lo avrebbe portato di lì a breve a teorizzare
Supermarionetta, non senza consonanze con la stessa Duse in merito alla
concezione dell'attore; dell'attrice italiana, sono invece significative, come viene
opportunamente notato, le modalità del suo percorso verso il nuovo: un percorso
che la spingerà sempre di più ad avvicinarsi alla temperie simbolista, sia
attraverso la frequentazione con
Aurélien
Lugné-Poe, che la introdusse a una visione simbolista dei testi ibseniani attraverso
un insistito lavoro sulle loro strutture drammaturgiche (quasi delle “prove di
regia a tavolino” lo definisce Simoncini), sia mediante il trattamento
effettuato dalla stessa attrice del testo di
Rosmersholm, piegato alla propria sensibilità artistica da un
accurato lavoro di traduzione e di intervento drammaturgico finalizzati alla
messa in scena triestina della pièce, che precedette di poco quella fiorentina.
La storia di questo allestimento è estremamente nota, così come nota è quella
delle riprese del testo ibseniano alla fine di dicembre del 1906 e dell'8 febbraio
1907 a Nizza. Al di là del dato di cronaca, è particolarmente interessante la
messa in luce di due aspetti, che chiariscono il senso complessivo del rapporto
tra la Duse e Craig. La prima sottolineatura riguarda la scarsa ricezione da
parte della critica italiana della carica innovativa della collaborazione tra i
due artisti, il che conferma da un lato la cronica sfasatura italiana rispetto
alla temperie europea connessa all'affermazione della regia e la posizione
sempre più divergente della Duse rispetto al teatro italiano del suo tempo;
dall'altro che la rottura traumatica tra l'attrice e Craig affonda le sue
radici non tanto in un conflitto tra due personalità titaniche, quanto
piuttosto nell'inadeguatezza dell'artista inglese nei confronti della
materialità delle pratiche sceniche e del necessario adattamento alle
differenti condizioni ambientali: il che ribadisce la tensione tutta ideale
della sua visione teatrale.
L'eclettismo di Edward Gordon
Craig trova ampie conferme nei fondi documentari che raccolgono i materiali
prodotti durante la sua lunghissima attività. Tra questi, spicca per
consistenza e articolazione il Fondo Craig della Bibliothèque Nationale de
France al cui interno, nella IX sezione (Craig
collectionneur), sono contenuti gli album cui si rivolge l'indagine
condotta da Cosimo Chiarelli (Performances
dello sguardo. Gli scrapbooksdi Edward Gordon Craig tra pratica creativa
e processi di creazione). Si tratta di oggetti eterogenei
che si sviluppano lungo l'asse della documentazione visiva, sia realizzata
dallo stesso Craig mediante schizzi, sia attraverso l'accumulazione in numerosi
scrapbooks di reperti visivi di varia
provenienza (ritagli di giornale, stampe, fotografie), spesso postillati da note
manoscritte. Essi si inseriscono in un contesto culturale che caratterizza la fine
del secolo XIX: da un lato questi album costituiscono per il futuro regista
inglese non solo un'occasione ricreativa ma anche un momento di formazione –
specialmente laddove questa pratica di svolge in ambito famigliare –,
dall'altro si collocano in un più ampio orizzonte di riferimento, richiamando
la nozione dell'atlante warburghiano.
Chiarelli
analizza questi documenti del Fondo Craig cercando innanzitutto di mettere in
evidenza l'architettura complessiva dell'intera raccolta e di chiarire la loro logica
interna individuandone le possibili partizioni, ora sulla base di un principio
di coerenza ed omogeneità, ora mettendo opportunamente in rilievo che l'omnivora
personalità di Craig era solita procedere per scarti, inaspettate
agglutinazioni e repentini sconfinamenti, rendendo così impossibili in alcuni casi
specifiche partizioni. È questo un aspetto fondamentale del lavoro analitico di
questo contributo, che nel descrivere la struttura interna degli
scrapbooks concorre a chiarire la loro
funzione di «palinsesto» e di «dispositivo ipertestuale», mettendo così in luce
la loro natura dinamica e riuscendo a farci percepire, si potrebbe dire, il “respiro”
della raccolta. Gli
scrapbooks sono
il luogo in cui si manifesta e prende corpo quella che Chiarelli definisce come
«l'iconofilia bulimica» di Gordon Craig, e che può essere considerata come
l'elemento generatore di un'idea di teatro fondata su una dimensione cinetico-visiva.
Gli
scrapbooks appaiono quindi come
il
backstage dell'officina teorica di
Craig. Significativa a questo proposito la cronologia della loro realizzazione,
individuata verosimilmente da Chiarelli tra la fine degli anni Ottanta del
secolo XIX e il 1904, immediatamente prima della elaborazione dei suoi principali
scritti. Essi costituiscono anche il materiale bruto che poi si sarebbe
sedimentato nella partitura visiva delle pagine di «The Mask», frequentemente
impreziosite da disegni e soluzioni grafiche dello stesso Craig (si pensi ai
raffinati capilettera che decorano l'inizio de articoli), arricchite da
un'iconografia in molti casi inedita, ma soprattutto variegata, offrendo al
lettore un'ampia campionatura visiva di riferimento, dalle planimetrie
settecentesche dei teatri della Roma alle xilografie delle sacre
rappresentazioni fiorentine, dai
Balli di
Sfessania di
Jacques Callot alle
danze delle geishe giapponesi.
[16] In questo processo di stratificazione del materiale iconografico, percorrendo
l'insieme degli
scrapbooks si
assiste, rileva ancora Chiarelli, ad un progressivo asciugarsi del segno
grafico e delle immagini in una dimensione dominata dall'assoluta essenzialità
delle linee e della luce, che letta a posteriori appare chiaramente anticipatrice
della rigorosa e sintetica semplicità degli
screens.
Il
contributo di Laura Caretti (Craig e l'impossibile magia di Pigmalione:
Black Figures per Hamlet) prende le mosse da Firenze, quando
Craig, dapprima presso la villa Il Santuccio in via di San Leonardo, poi
all'Arena Goldoni, cercherà di dar forma a quanto si era prefigurato negli anni
precedenti in Germania, quelli della sua cosiddetta officina teorica. È questo
un periodo ancora in parte segnato dall'influenza di Isadora Duncan, durante il
quale la danzatrice diventa in certa misura forza propositiva e sponda
dialettica per la creazione di Craig, dando luogo a progetti che rimarranno
ancora una volta lettera morta. Ma gli anni fiorentini sono anche quelli in cui
Craig inizia a cimentarsi in una produzione grafica significativa, quella delle
black figures, che costituiscono il
terreno di indagine dell'autrice. Si tratta di una serie di xilografie che traggono
origine dalle white figures, vere e
proprie prefigurazioni della Supermarionetta, sagome in legno raffiguranti vari
personaggi collocate da Craig nello spazio sperimentale del suo model stage elaborato tra il 1907 e il
1908, e che appunto delle xilografie costituivano la matrice. L'analisi di queste immagini
costituisce per Caretti l'occasione per mettere a fuoco i meccanismi del
percorso creativo di Craig, a partire dall'impulso originario delle sue visioni
interiori che si sarebbero poi attuate nella concreta fisicità delle black figures, che ci pare di poter
considerare come un analogon del punctum barthesiano. Se per Roland Barthes il punctum di un'immagine fotografica non era costituito
dall'apparente soggetto principale della foto ma da un dettaglio che potesse
sollecitare profondamente lo sguardo dell'osservatore, in Craig le contraintes materiali connesse
all'utilizzo del bulino sulle tavole lignee guidavano e obbligavano la sua mano
a cogliere, mediante l'assoluta precisione del taglio, l'essenza più profonda
dei personaggi raffigurati, i loro gesti qualificanti, facendo così emergere la
sintesi perfetta tra i suoi tratti caratteristici e gli effetti della tensione
drammatica. Esemplare in questo senso, ricorda opportunamente Caretti, la black figure che ci mostra Elettra:
questa immagine rivela come l'essenza di un personaggio possa essere racchiusa
in un solo gesto, che si pone quasi marginalmente rispetto al suo assetto
corporeo complessivo, ma che proprio in questa sua marginalità trova la sua
maggiore e icastica efficacia. Ugualmente esemplare è la ricostruzione del
percorso visivo sviluppato da Craig attorno al tema di Amleto, tragedia che riteneva impossibile da rappresentare, ma che
tra il 1909 e il 1912 sarebbe diventata parte importante della sua attività,
con la preparazione della celebre messa in scena al Teatro d'Arte di Mosca. Un Amleto che, al di là della
rappresentazione moscovita, vive anche nello spazio delle black figures e prova ad esistere anche nelle pagine di quella
edizione «senza pari» che avrebbe dovuto consistere in una sorta di progetto
registico ipertestuale in tre volumi disposto lungo l'asse del primo in folio della tragedia shakespeariana.
Un'edizione, questa, che non vedrà mai la luce: un altro dei molti atti mancati
della vicenda artistica di Craig. Ma in ogni caso, le black fugures pubblicate nelle più tarde edizioni tedesca e inglese
del 1928 e del 1930, rivelano, grazie alla potenza del segno grafico, i
principi della concezione teatrale craighiana, costituendo da un lato un
possibile modello per l'attore, dall'altro la traccia ineffabile della
Supermarionetta.
Uno dei periodi meno conosciuti
della permanenza di Craig in Italia è quello relativo al soggiorno a Rapallo
negli anni compresi tra il 1918-1920, di poco successivi alla chiusura del
periodo fiorentino e all'inizio del cosiddetto periodo ligure che va dal 1917
al 1936, certamente quello più lungo vissuto dall'artista nella penisola.
Chiave di volta di quegli anni è il rapporto intrattenuto da Craig con lo scrittore
veronese Danilo Lebrecht, per la cui ricostruzione è di fondamentale importanza
la corrispondenza intercorsa tra i fra i due, conservata da un lato presso il
Fondo Craig della Bibliothèque Nationale de France e dall'altro presso il Fondo
Lorenzo Montano della Biblioteca Civica di Verona, alla quale Nicola Pasqualicchio
già fatto ricorso affrontando il rapporto Craig/Lebrecht in contributo apparso
in un numero recente di «Biblioteca Teatrale».
[17]
Qui (Tra
Roma e Rapallo: Craig 1918-1920), la documentazione epistolare
viene rimessa in gioco allo scopo di far luce sugli anni rapallesi, anni che
nel percorso biografico e artistico di Gordon Craig sembrarono esser stati
vissuti nel segno di una continua irrequietezza, e che possono essere
considerati come oscillanti tra i poli opposti dell'illusione e della
disillusione. La conclusione dell'esperienza fiorentina, con la chiusura della
scuola dell'Arena Goldoni, costituisce per Craig come la perdita di un centro.
È l'inizio di un itinerario che nel corso dei cinquanta anni che gli resteranno
da vivere lo porterà a cambiare più volte dimora fino a giungere a Vence, in
Provenza, dove concluderà la sua lunga esistenza. Gli anni di Rapallo sono di
fatto l'avvio di questo percorso, non solo nel segno della ricerca di un luogo
ideale dove dar forma e sostanza alle proprie visioni teatrali, ma anche del
teatro in quanto tale, una ricerca tanto caparbia quanto impossibile, resa
inattuabile proprio a causa dello scarto la potenza di un'idea di teatro e
l'illusione di un pieno riconoscimento della bontà della propria proposta e,
soprattutto, un adeguato sostegno finanziario alle proprie aporie.
Rapallo è il luogo da cui
partono lo sguardo e la prospettiva progettuale di Craig, rivolti entrambi
verso Roma, utopico Eldorado capace di sollevare il regista e teorico inglese
dalle incombenti necessità materiali. È a partire da questa cornice di riferimento
che le pagine di Nicola Pasqualicchio fanno emergere un ritratto di Gordon
Craig in larga parte privato, composto da umane aspettative, altrettanto umane
velleità e umanissime amarezze e disillusioni. Significativa da questo punto di
vista, la citata corrispondenza con Danilo Lebrecht, rivelatrice non solo delle
attese e delle speranze di Craig, ma anche delle sue intrinseche debolezze,
delle richieste e delle pretese ai potenziali, ma sempre inadempienti, vacui e
inaffidabili mecenati, di cui queste lettere lasciano trasparire inoltre
l'incapacità di comprendere la visione teatrale craighiana, insieme a un
sostanziale disinteresse. Ma al di là della percezione della nobiltà romana, in
parte sicuramente distorta a causa di un crescente sentimento di delusione da
parte di Craig, e al di là anche della condizione di isolamento vissuta durante
il periodo rapallese, la focalizzazione proposta da Pasqualicchio apre un
ulteriore inedito scorcio sulla rete di relazioni intrattenute dal regista
inglese durante gli anni del suo soggiorno italiano, indicando opportunamente
la necessità di una capillarizzazione della ricerca, calibrata su singoli
segmenti cronologici, al fine di una comprensione contestualizzante della sua
vicenda artistica.
Nella prospettiva di indagine
indicata da Pasqualicchio si muove il saggio di Monica Cristini (Gordon Craig e il teatro in Italia. Due aneddoti), che sonda due episodi in
apparenza marginali verificatisi durante il soggiorno di Edward Gordon Craig a
Rapallo i quali, al di là della dimensione puramente aneddotica, acquistano
un'importanza particolare in quanto rivelano aspetti poco conosciuti della mentalità
e del modus operandi del regista
inglese e al contempo consentono di mettere a fuoco con maggiore nitidezza frammenti
del contesto in cui egli si trova ad operare. Una delle caratteristiche di
Craig è senza ombra di dubbio quella di procedere secondo sequenze non lineari
e, al di là della perentorietà e dell'apparente organizzazione razionale dei
suoi scritti teorici, ciò che sta alla base del suo pensiero e soprattutto
delle sue azioni si precisa attraverso successive sedimentazioni che producono
solo col tempo una più chiara stratificazione di senso. Ancora una volta, la
corrispondenza con lo scrittore veronese Danilo Lebrecht costituisce la fonte
di primaria importanza che consente di arricchire ulteriormente il profilo del
regista e di aggiungere complessità a una personalità di per sé già complessa.
Il
contributo di Cristini conferma efficacemente la pervicace volontà di Craig –
peraltro già messa in luce nello studio di Nicola Pasqualicchio – di entrare in
contatto con gli ambienti italiani, e specialmente romani, più influenti della
fine degli anni Dieci del XX secolo, allo scopo di trovare sostegno finanziario
alle sue visioni teatrali o anche più semplicemente allo scopo di attirare la
loro attenzione. Questa ricerca – che in certa misura inquina anche i rapporti
in apparenza più sinceri, come quello con Lebrecht, dalla cui corrispondenza si
intuisce da parte di Craig un'amicizia non completamente disinteressata – pare
svilupparsi sulla base di strategie talvolta oblique. È ad esempio il caso
fortemente emblematico dei suoi interventi dedicati Balli plastici di Fortunato
Depero, mero pretesto per la costruzione una vera e propria messa in scena
con la creazione di Mr. V, sotto il cui fantomatico profilo si adombrava
verosimilmente lo stesso Craig, allo scopo di incuriosire e sensibilizzare il
mondo teatrale romano sulla sua opera e in particolare sulla sua idea di una
scena essenzialmente fondata sul movimento.
Anche
questo episodio, incentrato su una palese strategia di mascheramento, conferma
ulteriormente che la condotta di Craig non può prescindere da una dimensione
spiccatamente virtuale, che non riguarda soltanto un'idea di un teatro che
sembra vivere unicamente negli spazi dei suoi scritti teorici, dei suoi disegni
e bozzetti, ma coinvolge anche ambiti in cui l'immediatezza, l'autenticità
delle relazioni e la concretezza delle azioni gli avrebbero apportato esiti
sicuramente più soddisfacenti. A questa latitudine si collocano i numerosi incontri
mancati o conflittuali che hanno costellato la biografia umana e artistica di
Craig. Tra questi, quello con Luigi Chiarelli
riportato alla luce da Monica Cristini nella parte finale del suo contributo
ancora a partire dalla corrispondenza tra Craig e Danilo Lebrecht, e che vide
coinvolti il drammaturgo italiano e il regista inglese in un tentativo senza
esito per la messa a punto di una nuova scena per la compagnia di Chiarelli al
Teatro Argentina di Roma.
Gli anni trascorsi a Firenze
costituiscono com'è noto uno snodo cruciale nel percorso artistico di Edward
Gordon Craig. A questo periodo si rivolge il contributo di Alessandro Sardelli (Sull'Arena
Goldoni in Oltrarno, dove EGC creava l'Arte del Teatro), che si struttura su più livelli, a cominciare da una rapida
ricognizione sulla Firenze di ieri e di oggi che da un lato evidenzia l'inalterato
assetto urbanistico del quartiere d'Oltrarno in cui si trovava l'Arena Goldoni,
l'officina teorico-pratica in cui Craig elaborò una buona parte della sua idea
di teatro, mentre dall'altro sottolinea la quasi completa scomparsa di quella
particolare composizione sociale in cui convivevano naturalmente artigiani,
famiglie signorili, piccoli commercianti, comunità straniere, tra cui spiccava
quella inglese. Anche se lo scritto di Sardelli non va esplicitamente in questa
direzione, la dicotomia tra la perfetta conservazione di parte della topografia
urbana e il dissolvimento di quello che può essere considerato come l'elemento
strutturale che ha da sempre caratterizzato il tessuto connettivo della società
fiorentina, spiega perfettamente la scarsa risonanza del cinquantenario
craighiano nella Firenze di oggi, una città spesso autoreferenziale, per lo più
concentrata sulla conservazione della propria immagine incentrata sulle
vestigia rinascimentali, quotidianamente segnata dal flagello dei flussi
turistici.
Craig più di cent'anni fa aveva
colto perfettamente l'intima natura della Firenze di allora: non è un caso la
scelta di risiedervi, non è un caso la collocazione del suo cantiere creativo
in Oltrarno, non è un caso l'idea di far sorgere la sua scuola per le arti del
teatro nel complesso architettonico dell'Arena Goldoni, al centro di un
quartiere ricchissimo di maestranze artigiane. Come mette pienamente in
evidenza Sardelli, la visionarietà di Craig forse trova la massima espressione
proprio qui, in questo scorcio della Firenze primo-novecentesca, mediante
l'utopica prefigurazione di scuola e teatro come luogo di sintesi, di
collaborazione e reciproco rispecchiamento tra le arti e i mestieri del teatro,
un vero e proprio sistema integrato dal sapore quasi wagneriano. Ed è ancora
qui, negli spazi dell'Arena Goldoni, che Craig tenta di operare un'ulteriore
sintesi, quasi nel tentativo di superare quello scarto irriducibile tra la
teoresi e le costrizioni pratiche della scena che ha costantemente
caratterizzato il suo operato artistico, spesso con gli esiti negativi che ben
conosciamo.
Il soggiorno fiorentino è anche
il momento in cui Craig elabora la sua visione teatrale più celebre, messa a
fuoco nel saggio L'attore e la Supermarionetta
pubblicato nel 1907 nel primo numero della rivista «The Mask», ed è altresì il
tempo della sperimentazione di nuove strutturazioni della scena, con la messa a
punto del model stage e della scena
mobile realizzata mediante il sistema degli screens,
di cui Sardelli in queste pagine ripropone la relazione tecnica relativa alla
richiesta di brevetto dell'Apparecchio per
la produzione di effetti scenici, presentata da Craig nell'aprile del 1910
all'Ufficio della Proprietà industriale del Ministero di Agricoltura,
Industria e Commercio,
ulteriore tentativo di riconoscimento della propria attività creatrice.
Anche l'articolo di Alessandro Nigro (“Brief Encounter”: Edward Gordon Craig e i Berenson, con una nota sulla cartella di
incisioni del 1908) approfondisce il periodo
fiorentino di Edward Gordon Craig, affrontandolo però attraverso la particolare
prospettiva del rapporto tra il regista inglese e Bernard Berenson, uno tra i più importanti storici dell'arte di
fine Ottocento e inizio Novecento. Il contributo di Nigro si affianca a quelli
di Mango, Paqualicchio, Cristini e Sardelli e insieme ad essi costituisce un
vero e proprio sistema integrato, non solo perché di fatto mette in luce, sia
pure da una diversa angolazione, il rapporto di Craig col suo tempo e con la
modernità, ma apre squarci vivacissimi sulla dimensione privata dell'artista,
sul suo modo di tessere relazioni, sulle strategie finalizzate alla ricerca di
sostegno ai propri progetti, in una perpetua oscillazione tra istanze
visionarie, abbandoni sensuali e miserie della sussistenza quotidiana.
Dopo aver ritracciato il
percorso critico di Berenson negli anni precedenti l'incontro con Craig –
quelli cioè dedicati alla stesura dei celebri volumi sulla pittura fiorentina,
dell'Italia Centrale e Settentrionale – Nigro illustra il rapporto tra lo
storico dell'arte e il regista inglese evidenziando la rete delle affinità e
divergenze culturali, e sottolineando comunque una sostanziale comune
avversione per le esperienze dei movimenti di avanguardia. Ma poi, sulla scorta
delle preziose informazioni desunte dalla corrispondenza e dai diari della
moglie di Berenson, Mary, l'autore traccia un vivacissimo quadro della vita di
Craig durante il breve periodo della frequentazione con i Berenson. Si tratta
comunque di un quadro tendenzioso, come evidenzia opportunamente Nigro, viziato
certamente dall'ottica preconcetta della Berenson, ma l'immagine del «selvaggio
sognatore» si staglia in ogni caso vivida sullo sfondo delle occasioni che
hanno scandito il rapporto con l'artista inglese, risultando, agli occhi del
lettore odierno, ricca di fascino, così come lo era per l'eterogeneo pubblico,
in prevalenza femminile, che animava gli altolocati consessi organizzati nelle
ville delle colline fiorentine. Emerge così la figura di un Craig squattrinato
seduttore, a tratti ingenuo sperimentatore, bizzarro animatore di comunità bohémiennes, perennemente in bilico tra
l'ambizioso riconoscimento del proprio operato e la necessità di soddisfare urgenze
primarie della sussistenza.
Ma questo quadro così
appassionante e vivace, come chiarisce efficacemente Nigro, sotto
l'accattivante patina della dimensione aneddotica si nascondono istanze e
dinamiche assai più profonde. Esse, se da un lato riguardano quelle strategie
autopromozionali che diventeranno in progresso di tempo il tratto consueto e
caratteristico anche degli anni rapallesi, dall'altro fanno emergere dalla rete
delle accidentate relazioni di Craig con la comunità angloamericana di Firenze
vicende che – se lette nel quadro generale della filiera della sua elaborazione
teorica e della sua prassi scenica –, acquisiscono in realtà un rilievo che va
ben oltre il loro carattere apparentemente episodico, costituendosi come snodi
cruciali del percorso artistico del regista inglese. Esemplare da questo punto
di vista la vicenda, brillantemente ricostruita da Nigro, delle serie di stampe
realizzate da Edward Gordon Craig durante la breve ed intensa frequentazione
con la famiglia Berenson e che, al di là dell'immediata e ricorrente valenza di
riconoscimento artistico ed economico, dal punto di vista della configurazione
della concezione scenica e costumistica di Craig si pongono come un
significativo e soprattutto coerente trait
d'union tra la proposta scenica del Rosmersholm ibseniano del 1906 e il
futuro allestimento dell'Amleto al
Teatro d'Arte di Mosca.
Ultimo
contributo del volume il testo della conferenza spettacolo Gordon Craig e Stanislavskij. Amleto al Teatro d'Arte di Mosca dedicata al celebre allestimento del
1912, realizzata da Sandro Lombardi,
Ferruccio Marotti e Federico Tiezzi nel Saloncino del Teatro della Pergola a
conclusione del convegno del cinquantenario, e qui presentata dallo stesso
Marotti (“Amleto” a Firenze) in pagine che ripercorrono
vividamente alcuni momenti della relazione tra Craig e Isadora Duncan
strettamente connessi all'approdo del regista a Firenze, in anni che furono senza
obra di dubbio propedeutici alla creazione dello spettacolo moscovita.
Il
percorso fin qui tracciato attraverso i contributi del convegno conferma
ulteriormente la natura quantomeno ancipite di Edward Gordon Craig,
perennemente sospeso tra l'impossibilità di dar forma sensibile alla sua idea
di teatro e la stringente necessità di proiettare la sua visione teatrale nella
lontananza del futuro. Tra i padri fondatori del teatro novecentesco è quello che
più di altri ha contribuito a fornire una sistematizzazione teorica del
concetto di regia e pur tuttavia, proprio in virtù di questo scarto
irriducibile tra la preconizzazione del teatro del futuro e le ineludibili
costrizioni della prassi scenica che ha sempre caratterizzato il suo fare
teatrale, la sua figura appare caratterizzata da un profilo sfumato e
inafferrabile, rivelandosi una delle personalità più enigmatiche del teatro
europeo del primo Novecento. È un po' come alcune delle figure che compaiono in
molti dei suoi bozzetti scenografici, pure ombre, presenze fantasmatiche, che
transitano improvvise sulla scena. In questo sta forse il suo fascino, in
questo, per noi che di teatro viviamo, il nostro desiderio di capire.
Vorrei
infine dedicare queste pagine alla memoria di Lia Lapini e Gianni Isola: se la
sorte non avesse deciso diversamente sarebbero stati sicuramente protagonisti autorevoli
di questo convegno.
di Renzo Guardenti