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Danser en 68. Perspectives internationales

A cura di Isabelle Launay, Sylviane Pagès, Mélanie Papin, Guillaume Sintès

Montpellier, Deuxième époque, 2018, 320 pp., euro 21,00
ISBN 978-2-37769-048-0

Con lo sguardo critico puntato sul 1968, momento-chiave per vagliare alcuni dei più significativi mutamenti nelle arti, questa raccolta di saggi apre nuove prospettive internazionali sulla danza analizzando alcuni casi esemplari provenienti daGiappone, USA, Francia, Algeria, Cuba, URSS, Brasile, Argentina e Italia. Tali esperienze mostrano tendenze variabili fra l’estetica nuova e la militanza, la scoperta di tematiche trascurate e la formulazione di metodi di sviluppo di forme inedite; mentre si evidenzia sempre più la distinzione fra il balletto e la danza. 

In apertura si esamina lo spettacolo L'insurrection de la chair (La ribellione della carne e La ribellione del corpo; primo titolo: Hijikata Tatsumi e i giapponesi, 1968) di Hijikata Tatsumi, considerato all’origine del butoh, movimento nipponico oggetto di discussioni tuttora aperte sia sul suo significato specifico, sia sul corso della danza contemporanea. L’articolo di Patrick De Vos indaga l’influenza della letteratura francese sul butoh, poi diffuso in tutto l’occidente per l’evidente alternanza di scambi intercontinentali. Reperti di quelle idee (più che dei precisi materiali coreografici) indicano in Artaud e in Genet fonti ricollegabili all’esperienza di Kazuo Ohno. Un «tentative brève et quasi désespérée» (p. 33) di ricostruzione è basato su un montaggio di brani filmati e fotografie (inedite) di diverse edizioni. Le conclusioni restano precarie, se pure dalle reazioni e dai giudizi espressi risultino i dati obiettivi della ritualità, del travestitismo e dell’ambiguità critica verso le forme tradizionali, che poi Hijikata avrebbe recuperato in una nuova luce. «Une pièce dont on aura pu au moins percevoir la dimension spectaculaire, la véhémence physique, l’éros grimaçant, obsedant, pas loin de l’obscène, l’oscillation constante entre les registres» (p. 45).

Mark Franko, danzatore della compagnia di Paul Sanasardo, illustra una fase del suo lavoro a New York mediante tre significative opere del radicalismo “spinto” del periodo. I temi affrontati sono l’opposizione alla guerra in Vietnam, il riconoscimento della presenza omosessuale nella sfera pubblica, la lotta per i diritti civili e la seconda ondata di femminismo. Formatosi con Martha Graham e Antony Tudor, Sanasardo (maestro italo-americano rimasto appartato, misconosciuto) presenta in Pain (1969) immagini del massacro di My Lai in Vietnam (1968). Seppure ispirata alla concezione hegeliana della bellezza del dolore, la vicenda era resa con strumenti corporei anti-classici. «Je me souviens – ricorda Franko – qu’on y installait une tension croissante à renfort de cris» (p. 61). The Path (1972) costituiva un viaggio nelle tre età dell’uomo, allegorie di giovinezza, amore e vecchiaia. Il tema del “doppio” appariva in un gioco di immagini riflesse, episodio che impegnava in un pas-de-deux un bianco e un nero. I danzatori indossavano guanti di gomma per vanificare ogni vero contatto. «En son centre, cependant, l’amour était un amour homosexuel qui rompait avec les connotations habituelles du cheminement humaniste et ses étapes obligées» (p. 68). A Consort for Dancers (1975) rappresentava un collage di poesie di Anne Sexton (morta suicida) in uno spazio scenico rettangolare con il pubblico posto frontalmente. L’azione evocava «Dieu, la morale, la maternité» (p. 76), mediante una imagérie persino brutale tratta dal quotidiano. 

Marina Nordera ripercorre l’iter della studiosa e animatrice della danza Francine Lancelot, partendo proprio dal 1968 con la pubblicazione del suo fondamentale studio Les sociétés de farandole en Provence et en Languedoc (Les Mans, Arès, 2000), nel quale evidenzia l’integrazione d’una tecnica coreografica militare (la farandola appunto) con la danza popolare. «Traditionnel et savant, mémoire et histoire, oralité et écriture se croisent dans son parcours» (p. 90). I talenti multiformi della sua personalità sono riconosciuti nella ricerca storica, ma anche nell’applicazione coreografica, i cui frutti si compendiano in La Belle Danse: catalogue raisonné fait en l'an 1995 (Paris, Van Dieren, 1996). 

Claudia Palazzolo ricerca nel film di Maurice Béjart Le Danseur i motivi che inducono l’artista a filmare la danza. Tra i primi a usare l’audiovisivo, Béjart non mirava a serbare la propria opera, ma a esplorare la «fatalité corégraphique dans l’invention cinematographique» per trascendere la semplice ripresa del “reale”. Sorge così nell’artista l’idea di danza “popolare”, in analogia al concetto vilariano di teatro, nel rievocare il successo di Messe pour le temps présent, creata nel 1967 ad Avignone. Nel proporre una danza “per tutti”, Béjart la vorrebbe a tutti accessibile, tanto da affidare i suoi spettacoli alla televisione. Seguendo il montaggio e il commento del film, Palazzolo deduce la speciale responsabilità civile conferita al danzatore. «Il lui faut demeurer une créature lointaine, mais en se rapprochant du public» (1968, p. 99). La situazione documentata da Julie Perrin è colta negli Stati Uniti nell’incrocio affollato ed eterogeneo fra voci e figure eminenti e diversissime, come Merce Cunningham (Event, 1964), Lucinda Childs (Street Dance, 1964) e Trisha Brown (Equipment Pièces, 1968). E si sofferma su Anna Halprin (Parades and Changes, 1965), per seguirla nella sua pratica d’immersione nell’ambiente (environment) di allievi e seguaci, con i quali l’approccio pedagogico ottiene sensibili risultati estetici. Dal 1966 conduce i suoi laboratori, nei quali «les situations émotionnelles, à la fois personnelles et collectives, allaient devenir le ressort de la recherche, anticipant aussi l’idée que le personnel est politique» (p. 123), con un programma educativo e multietnico.

Il contributo di Aline Laignel e Mélanie Papin sulla danza jazz in Francia indica nell’arte un mezzo per affrontare la questione razziale. Il fenomeno proveniente dagli USA inizia con Pas de dieux, allestito nel 1960 da Gene Kelly all’Opéra. Dieci anni dopo, sarà Matt Mattox l’alfiere della diffusione di tale danza mediante la sua scuola. «Matt Mattox incarne, au début des années soixante-dix, cette démocratisation de la danse jazz blanche» (p. 144), supportato dal programma televisivo Pulsations. Una “marginale” della danza risulta a Parigi Graziella Martinez,  argentina che collabora con la comunità sudamericana formata dai teatranti LavelliCopiArrabal e Savary. L’originalità eclettica della Martinez interpreta il femminismo in stile dada e riprende Giselle in varianti di delirante follia. Susanne Franco esplora le esperienze coreutiche italiane, a partire dall’effervescenza innescata dal convegno sul teatro tenuto a Ivrea nel 1967. Tale trattazione giunge fino agli anni Ottanta, in un confronto costante con gli eventi più significativi del “nuovo teatro”.

La condizione africana emerge dal saggio di Mahalia Lassibille che prende avvio dal Festival panafricano tenuto ad Algeri nel 1969, con testimonianze primarie sul movimento verso l’indipendenza e le sue derive nazionalistiche. I rapporti fra URSS e Cuba sono esemplificati nelle vicende dello spettacolo Carmen, prodotto in due versioni create da Alberto Alonso e con due interpreti: la russa Maïa Plissetskaia e la cubana Alicia Alonso (1967).

Il Brasile osservato da Cássia Navas e Beatriz Cerbino rivela i condizionamenti della censura, rafforzata dalla dittatura militare con l’atto detto “AI-5”. Nella frammentaria realtà locale, le autrici scelgono quattro compagnie attive a São Paulo, Salvador de Bahia e Rio de Janeiro, in cui emerge l’aspetto, per noi inedito, del tropicalisme, tendenza che fonde tradizioni e avanguardie. Analogie col Brasile fa notare Juan Ignacio Vallejos nella situazione argentina, dove rileva le componenti conturbanti della sexualité e della subversion utopique, avversate dal regime sorto dal colpo di stato del 1966. Guillaume Sintès indaga sui motivi della rivalità fra Serge Lifar e Michel Descombay (autore dello spettacolo-manifesto Frères humains, 1950) e del suo allontanamento dalla Direzione dell’Opéra di Parigi perché accusato di communisme (p. 236). Stéphanie Gonçalves valuta le tournées sovietiche in Francia, fra gradimento del pubblico e riserve delle autorità, al tempo della Guerra Fredda.

Le curatrici chiudono il volume con la sintesi di un excursus complesso, maturato fino alla acclarata necessità d’un servizio pubblico che assimili la danza allo statuto creativo già riconosciuto al teatro grazie alla décentralisation


di Gianni Poli


La copertina

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