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La commedia italiana. Tradizione e storia

A cura di Maria Cristina Figorilli, Daniele Vianello

Bari, Edizioni di Pagina, 2018, 286 pp., euro 20,00
ISBN 9788874706389

Il volume raccoglie i ventidue interventi del convegno internazionale La commedia italiana. Tradizione e storia, organizzato da Maria Cristina Figorilli e Daniele Vianello (Università della Calabria) nel maggio 2016. L’ambizioso obiettivo è quello di colmare, almeno parzialmente, l’assenza «di un contributo che affronti in modo organico il tema della commedia italiana dalle origini ai giorni nostri» (p. XIII). A questo scopo il libro propone un insieme variegato di voci evitando il pericolo di semplicismi o di predeterminazioni sempre in agguato in ricognizioni di così ampia portata.   
 
In apertura Giulio Ferroni colloca la nascita della commedia italiana nell’orizzonte culturale europeo del rinascimento dei moderni (cfr. G. Mazzacurati, Bologna, il Mulino, 1985) individuando alcuni tratti essenziali nel legame con la città e nello stile “basso”. Michael Rössner definisce la commedia un genere della “translazione”, intendendo la “traduzione” una negoziazione di senso tra la cultura di provenienza del messaggio e quella della sua ricezione. La teoria del transitional turn si applica ai molteplici casi in cui buona parte dell’effetto comico si gioca sullo scarto semantico con l’originale.   
 
Piermario Vescovo si sofferma sulla ricezione del concetto di comedia in età medioevale. Sin dalla tarda antichità in assenza della prassi sopravvive un ricordo vago e distorto della commedia classica. Grammatici e commentatori travisano il genere nei suoi aspetti basilari: tra i casi più eclatanti si segnalano l’invenzione di un Calliopio recitator delle commedie di Terenzio e la trasformazione dei cinque atti canonici in cinque “personaggi agenti” già negli scritti di Isidoro di Siviglia (VII sec. d.C.).   
 
Gianni Guastella si occupa dei volgarizzamenti plautini e terenziani di fine XV-inizio XVI secolo, circoscrivendo il corpus testuale a noi pervenuto (nove commedie plautine e tre terenziane, destinate quasi tutte alla sola lettura) e discutendo il legame tra i singoli volgarizzamenti e la scena ferrarese di età erculea, troppo spesso inopportunamente enfatizzato dagli studi sull’argomento.
   
Marzia Pieri traccia i lineamenti della commedia volgare di età rinascimentale nelle sue molteplici versioni tra carta e scena. L’attenzione si focalizza sulle pratiche di ibridazione tra il materiale antico appena riscoperto e le preesistenti pratiche spettacolari festive, con riferimenti specifici a due modelli complementari: la Calandra urbinate del 1513 diretta dal Castiglione e la Mandragola machiavelliana andata in scena nel carnevale fiorentino 1519.   
 
Stefania Mallamaci esamina la rappresentazione mantovana del Formicone di Publio Filippo Mantovano (1503), proto-commedia rinascimentale riconducibile alla cerchia culturale di Isabella d’Este. Carlo Fanelli ricostruisce sinteticamente le due più importanti messe in scena della Calandria del Bibbiena nel XVI secolo: la urbinate (1513) e la lionese (1548). Se nel primo allestimento c’è equilibrio nel rapporto tra la commedia e gli intermezzi, a Lione tale combinazione è sbilanciata verso questi ultimi, ormai giunti a piena maturazione formale.   
 
Pasquale Stoppelli affronta l’annoso problema del rapporto tra la scena e il testo, rivendicando un approccio tradizionalmente filologico nella edizione critica dei testi teatrali. Francesco Bausi si occupa di alcuni aspetti “politici” della Mandragola di Machiavelli. Combinando informazioni di diversa provenienza (testuale, epistolare e contestuale), si ipotizza che la stesura del testo sia da datare intorno al 1514: il che consentirebbe di associare l’antifiorentinismo che sembra serpeggiare tra le pagine del capolavoro comico all’isolamento cui l’ex-segretario, ormai privo di ogni incarico, era stato costretto.   
 
Raimondo Guarino pone l’attenzione sulla centralità della questione della lingua, non soltanto in relazione alle esigenze mimetiche, ma anche come fulcro attorno cui ruota l’effetto comico. La stratificazione linguistica pavana nell’opera di Ruzante esemplifica bene entrambi gli aspetti, come a suo tempo messo in luce da Ludovico Zorzi (cfr. Ruzante, Teatro, Torino, Einaudi, 1967).   
 
Passando alle tradizioni teatrali senese e fiorentina del Cinquecento, Renzo Bragantini sottolinea le profonde inferenze della narrativa nelle veglie intronatiche, nonché individua nel protagonismo femminile la peculiarità del teatro degli Intronati. Chiara Cassiani mette in relazione le due commedie di Giovan Battista Gelli La Sporta (1543) e Lo errore (1556) con il contesto fiorentino della metà del XVI secolo, discutendo la possibilità di attribuire al filosofo e drammaturgo anche un terzo lavoro, la Polifila (1556).   
 
Francesco Cotticelli indaga il contesto produttivo e la prassi compositiva dei comici di professione in Antico regime, distinguendo tra “premeditazione” e “improvvisazione” e definendo gli scenari non come trame precostituite, bensì materiali d’uso. Franco Vazzoler esplora la commedia letteraria del Seicento alla luce della fluida dialettica professionismo-accademia caratteristica della produzione teatrale dell’intero secolo.   
 
Andrea Fabiano analizza la ricezione dell’opera buffa italiana nel teatro francese del Settecento: un processo lento e graduale che ha incontrato notevoli resistenze da parte della cultura d’oltralpe. Javier Gutiérrez Carou presenta il progetto Archivio del Teatro Pregoldoniano, finalizzato alla creazione di una banca dati open access con l’edizione critica delle opere teatrali che possono aver influenzato, direttamente o indirettamente, la produzione di Carlo Goldoni.   
 
Del drammaturgo veneziano si occupa anche Bartolo Anglani, che affronta la annosa questione delle riflessioni teoriche dell’autore disseminate in prefazioni, lettere o dediche secondo una strategia di comunicazione ben precisa.   
 
Alberto Beniscelli si concentra sull’illustre “rivale” di Goldoni, Carlo Gozzi. Una lettura de Le gare teatrali (1751), prima prova comica del conte mai rappresentata ed edita solo recentemente (cfr. Commedie in commedia. Le gare teatrali. Le convulsioni. La cena mal apparecchiata, a cura di F. Soldini e P. Vescovo, Venezia, Marsilio, 2011), rivela l’importanza che sin dagli anni giovanili ebbe la vena polemico-parodica nella maturazione della sua personale idea di teatro. Inoltre si indaga l’influenza esercitata dalle Fiabe gozziane sulla sperimentazione comica di Vittorio Alfieri.   
 
Con un “salto” cronologico in avanti, Franco Perrelli analizza la Torre di Babele di Guglielmo Giannini (1938), interrogandosi sulla collocazione del celebre fondatore del movimento politico L’Uomo Qualunque nella storia del teatro della metà del Novecento.   
 
Gerardo Guccini tratteggia i lineamenti del “teatro di narrazione” performance-based dell’ultimo decennio del secolo scorso, sviscerando i procedimenti di riuso del materiale comico tradizionale. Luca D’Onghia offre una campionatura dello sperimentalismo linguistico che contraddistingue la produzione teatrale del belpaese negli anni Duemila, osservando il rapporto inversamente proporzionale tra l’affermazione della lingua italiana sul territorio nazionale e il rafforzamento dei dialetti in ambito teatrale.   
 
Giacomo Manzoli si occupa del «format cinematografico» della commedia all’italiana. Debitore nei confronti della plurisecolare tradizione teatrale comica, questo genere si afferma anche oltre i nostri confini contribuendo alla rappresentazione stereotipata dell’Italia nel mondo. 
 
In sintesi, la combinazione di metodologie diverse e la pluralità delle voci, anche tra loro dissonanti, arricchiscono un campo di studi ancora in larga parte da esplorare. L’auspicio è che a questa fase “centrifuga” ne segua una “dialettica” volta a ridefinire il fenomeno nel suo insieme. 


di Marcello Bellia


La copertina

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