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Virgilio, Ovidio, Boccaccio, Marlowe, Metastasio, Ungaretti, Brodskij

Didone: la tragedia dell'abbandono

A cura di Antonio Ziosi

Venezia, Marsilio, 2018, 342 pp., euro 10,00
ISBN 978-8-831-72862-1

Occuparsi in una prospettiva diacronica del mito di Didone, tra i più “ingombranti” della cultura occidentale, è un’impresa titanica. La mole di dati a disposizione è mastodontica (limitandosi all’ambito teatrale in età moderna, si contano fino a centocinquanta drammi differenti con soggetto “Didone”) –, così come smisurata è la bibliografia.   
 
Se, in aggiunta, si prende in considerazione il percorso plurimillenario di ricezione del mito (cfr. il saggio introduttivo) proponendo un’antologia di testi (in traduzione) agile e di dimensioni contenute, il quoziente di difficoltà aumenta ulteriormente: il rischio di eccessive semplificazioni e svarioni evoluzionistici è dietro l’angolo.   
 
L’unica possibile àncora contro tali pericolose derive è la definizione di un metodo rigoroso e di un perimetro di ricerca circoscritto. Da questo punto di vista il lavoro di Antonio Ziosi è, nell’ambito dei Reception studies, esemplare. 
 
L’argomentazione prende le mosse da Virgilio, com’è noto principale artefice della fortuna letteraria e teatrale della regina fenicia. Personaggio multifunzionale e polisemico tra i più riusciti dell’Eneide, la Didone virgiliana è insieme donna-ostacolo amata e poi abbandonata dal protagonista nel solco della imitatio omerica (Calipso, Circe), aition delle guerre romano-cartaginesi come forse già in Nevio, tormentata maschera tragica.   
 
Proprio quest’ultimo tratto rappresenta l’innovazione più significativa del grande poeta latino: sin dalla sua prima menzione (il “prologo” in cothurni di Venere di I.338-368), Didone viene presentata come l’eroina protagonista di «una vera e propria tragedia incastonata nell’epos» (p. 9). Travolta dalla passione, osa tradire il giuramento di fedeltà al marito assassinato unendosi con Enea, violando così le leggi della fides e perdendo per questo il pudor e la fama. È propriamente una “colpa tragica” la vera causa scatenante del ciclo di eventi che la porterà al suicidio. Vittima di un insanabile conflitto interiore, Didone è molto vicina sia alla Medea di Euripide sia all’Arianna di Catullo.   
 
Il paradosso della versione virgiliana del mito dell’eroina fondatrice di Cartagine consiste nel ribaltamento della tradizione mitologica pregressa (Timeo, Pompeo Trogo). È infatti il poeta mantovano a “inventare” il tradimento di Didone. Prima dell’Eneide ella rappresentava a tutti gli effetti un exemplum di fides assimilabile alla Lucrezia romana: costretta dai suoi sudditi a sposare un suo pretendente per evitare una potenziale guerra alla città, si toglie la vita per non tradire il vincolo di fedeltà al marito ucciso. Tuttavia la Didone “fedele” sopravviverà, destinata a riemergere tra le crepe della storia “ufficiale” di Virgilio in una dialettica che continua ancora oggi.   
 
Il primo confronto con la neonata Didone “traditrice” si consuma già in Ovidio. Nell’arte poetica fortemente allusiva del sulmonese, la riscrittura di frammenti dell’èpos virgiliano in chiave polemico-parodica ha un ruolo fondamentale. La ripresa più significativa del personaggio ha luogo nella VII epistola delle Heroides che si finge scritta da Didone a Enea come ultimo disperato tentativo di evitare o almeno di posticipare la partenza dell’amato. La lettera “traduce” l’eroina in amante elegiaca, appiattendone volutamente la complessità psicologica, nonché rilegge tendenziosamente e non senza consapevoli distorsioni alcuni tratti ambigui della narrazione epica. In un sorprendente capovolgimento di fronte, l’Enea delle Heroides non si allontana da Cartagine in ossequio alla pietas, bensì è un perfidus ingannatore che pur di ottenere il carico di gloria promesso decide di partire in inverno con il mare in tempesta esponendo al rischio il proprio figlioletto Ascanio e abbandonando la regina con in grembo un suo discendente.   
 
Prima lettura “antieroica” dell’eroe latino per eccellenza, la VII delle Heroides ovidiane costituirà l’archetipo della cosiddetta tradizione dello impius Aeneas, nel Medioevo strettamente correlata a quella della casta Dido. Quest’ultimo è un vero e proprio filone alternativo che parte dall’apologeta Tertulliano e da Girolamo strutturandosi compiutamente in Petrarca e Boccaccio. Ziosi si concentra in particolare sul certaldese e sul suo personale itinerario di ricezione del mito: in gioventù Boccaccio ne propone un’interpretazione ancora di marca virgiliano-dantesca, mentre nella maturità, seguendo l’influenza petrarchesca, fa di Didone un exemplum morale della castità in senso cristiano.   
 
Considerata la peculiare forma “tragica” del IV libro dell’Eneide, le vicende della regina cartaginese hanno conosciuto un’ininterrotta fortuna drammatica sulle scene europee. Le rappresentazioni teatrali dedicate a Didone, le cui prime testimonianze risalgono alla tarda antichità, raggiungono la massima fortuna con la “rinascita” della tragedia cinquecentesca. Dopo una rapida disamina della drammaturgia di ambito italiano, inglese, francese e spagnolo nel XVI secolo (all’insegna dell’impronta aristotelico-senecana, allegorica, controriformistica o moraleggiante), l’attenzione si rivolge alla Dido, Queen of Carthage di Christopher Marlowe.   
 
La Dido di Marlowe appare, a un primo livello di lettura, un mero adattamento teatrale del IV libro dell’Eneide con qualche incursione nel I e nel II. Tuttavia, a un’analisi più attenta, si rivela una complessa interpretazione di Virgilio alla luce di Ovidio. Il reiterato ricorso ad allusioni ai testi ovidiani negli snodi chiave della tragedia produce una distorsione consistente del dettato epico, che si volge in direzione ironico-straniante o elegiaca a seconda dei casi. Il risultato è un dramma originale imperniato sulla passione amorosa intesa come potenza distruttrice, cui nessun personaggio è immune e che è capace di annientare indiscriminatamente uomini, donne e città.   
 
Sul modello degli archetipi classici filtrati dalla tragedia cinquecentesca anche il melodramma si popola di Didoni. Sul piano della storia della ricezione, il caso più rilevante è quello della Didone abbandonata di Pietro Metastasio. Il libretto del Trapassi, musicato dai più grandi compositori del Settecento, ha contribuito a dare avvio a quella rivoluzione del melodramma incardinata sulla rivalutazione della parola poetica rispetto alla musica e al canto. L’intreccio virgiliano, arricchito da una catena di amori non corrisposti, è in quest’opera filtrato dal modello dell’Andromaque di Racine. Dal drammaturgo francese Metastasio mutua anche il lessico patetico, di sensibilità arcadica, condotto fin quasi alla superfetazione.   
 
La sezione conclusiva del saggio è dedicata all’analisi di due versioni del mito nella poesia novecentesca: i Cori di Didone di Ungaretti nella raccolta La terra promessa e la lirica Didona i Ènej di Iosif Brodskij. Nella poesia ungarettiana Didone è una delle voci che Enea ode al suo arrivo nella tanto agognata Italia, momento che innesca nello spirito dell’eroe un’epifania sincronica di passato, presente e futuro. La regina cartaginese è un’allegoria del doloroso distacco dalla giovinezza, memoria vivente di un passato glorioso lontano e irraggiungibile. Brodskij invece riscrive l’abbandono di Didone partendo da Virgilio, richiamato allusivamente sia sul piano semantico che simbolico, sovrapponendo in una visione profetica il rogo su cui la donna muore suicida con quello che distruggerà Cartagine.   
 
Consapevole della non-linearità della tradizione e della molteplicità di significati possibili e compresenti in un mito così fecondo, lo studio di Ziosi non si limita all’individuazione e all’analisi di alcuni testi miliari della tradizione di Didone, ma li rapporta costantemente al contesto culturale che li ha prodotti soffermandosi sulle modalità della loro ricezione attiva e passiva nella lunga durata. La missione (quasi) impossibile può dunque dirsi riuscita.

di Marcello Bellia


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