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Giulia Vannoni

A un dottor della mia sorte. La storia della medicina raccontata dal teatro d'opera


Bologna, Pendragon, 2017, 188 pp., euro 15
ISBN 9788865988053

Figure di medici e guaritori, nelle loro più svariate declinazioni, animano il palcoscenico del teatro d’opera, proiettano le loro ombre allungate e perigliose su scenografie di cartapesta, o semplicemente radunano folle di ingenui avventori, pronti a trangugiare pozioni innocue delle quali si proclamano a gran voce le proprietà miracolose. Di questo variegato scenario il libro di Giulia Vannoni offre una descrizione puntuale e dalle solide basi scientifiche, erudita ma non paludata, appassionante come una narrazione romanzesca. Il sottotitolo del volume, La storia della medicina raccontata dal teatro d’opera, rivela un punto di vista inedito. Con perizia “alchemica” l’autrice coniuga la magnetica passione per la lirica alla metodologia scientifica, il piglio a tratti ironico della scrittura all’approccio storico-critico.

In apertura il volume evidenzia come i cambiamenti epocali dell’arte medica trovino puntuale riscontro nel percorso melodrammatico. Come è noto, già Marsilio Ficino affermava che «si possono efficacemente curare con certe musiche le malattie del corpo e della mente» (p. 17), stabilendo una connessione indissolubile fra le due discipline. Non a caso gli esordi dell’opera attingono al mito di Orfeo, il cui canto non solo ammansisce le fiere e conduce a un mondo infero altrimenti precluso, ma esercita un influsso benefico sull’animo umano. Spunti letterari punteggiano la narrazione, garantendo un’apertura più ampia, non limitata all’ambito operistico. In quest’ottica il saggio non è a “uso esclusivo” dei melomani. Interessa la storia della cultura in senso ampio.

I diversi capitoli analizzano di volta in volta le figure eterogenee dei ciarlatani, degli speziali, dei farmacisti e dei medici veri e propri, inserendole nel contesto del proprio tempo. Accanto agli esempi più noti ed emblematici, l’autrice rispolvera nomi di compositori, librettisti e personaggi oggi dimenticati, destando l’interesse del lettore curioso. Fra i tanti ritratti ricordiamo quello di Don Bartolo nel Barbiere di Siviglia (la cui nota aria dà il titolo al libro), il quale, grazie alla Rossini renaissance, ha recuperato il proprio ruolo di dottore professionalmente autorevole. Una svolta è data dal Dulcamara del donizettiano Elisir d’amore. Grazie al musicista «la comicità operistica conosce una svolta» (p. 55). Il distacco rossiniano si tramuta in empatia, in quell’umanità del buffo «che porterà al Don Pasquale, aprendo la strada a Falstaff» (ibid.). Del tutto originale, poi, la figura del medico mauritano nella Iolanta di Ciajkovskij, sorta di stregone-psicologo che non ha paragoni nel teatro musicale. Atmosfere ben diverse, dal taglio crudele ed espressionista, introducono il cinico dottore del Wozzeck di Alban Berg. Nelle sue mani il protagonista diviene una cavia umana, vittima di un processo disumanizzante che anticipa gli orrori commessi dagli scienziati nazisti. 

Il capitolo più interessante è forse quello in cui, partendo dalla divagazione mesmerica del Così fan tutte mozartiano, si indaga ampiamente la figura del medico originario della Svevia. Il caso Mesmer, con l’alone misterico che lo ha sempre circondato, creò schiere di adoratori e detrattori. Morto nel 1815, coperto dal velo dell’oblio, sarebbe forse scomparso negli abissi del tempo senza il libretto di Da Ponte a conferirgli imperitura memoria. Eppure le sue teorie sul magnetismo rivolte alla cura dei disturbi psicologici,  il suo metodo e le novità introdotte dai suoi studi ispirarono una folta schiera di allievi che confermarono alcune intuizioni del maestro.

Dal mesmerismo si passa al sonnambulismo, le cui implicazioni magiche non potevano sfuggire al teatro d’opera. Si pensi al celebre melodramma di Bellini, che l’autrice indaga attraverso un proficuo parallelo con Il Principe di Homburg di Kleist. Un momento di coscienza smarrita che, se nel caso dello scrittore tedesco è percorso da una scoperta ambiguità, nel compositore catanese resta nei canoni più rassicuranti di un inequivocabile lieto fine. Chiude il libro una breve trattazione del tema della follia, spunto per i mirabolanti virtuosismi canori delle primedonne in ambito ottocentesco e oggetto di studio clinico nel secolo successivo.



di Riccardo Cenci


La copertina

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