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Un serio spettacolo non serio. Danza e stampa nell’Italia fascista


Milano-Udine, Mimesis, 2017, 256 pp., euro 24,00
ISBN 978-88-5753-876-1

Il volume di Giulia Taddeo prende spunto da un’emblematica definizione di Alberto Savinio, «serio spettacolo non serio», per analizzare, con ampiezza di fonti prevalentemente inedite e una buona lettura critica di esse, l’atteggiamento ambiguo e oscillante della cultura italiana e della stampa della prima metà del Novecento nei confronti dell’arte coreutica e degli spettacoli di danza. Come dire l’opportunità, e quindi la serietà, di occuparsi di una disciplina che nel corso dei secoli, fra attrazione e rifiuto, fra bassa corporeità e alte considerazioni intellettuali e filosofiche, si è sempre posta al limite dell’accettazione sociale e che, in particolare nel ventennio fascista, viene sviscerata secondo diverse quanto contraddittorie sfaccettature, mettendone in evidenza la ricca complessità e l’intrinseca polimorfia.

Attraverso una coralità di punti di vista e di opinioni – dall’anonimo cronista al critico blasonato, dalla voce degli artisti e degli autori direttamente coinvolti negli spettacoli alle reazioni del pubblico, fra tendenze collettive e gusti personali, evidenze socio-culturali e singoli interessi – emerge un interessante, ricco panorama di “discorsi” teorici e pratici sulla danza e sul suo ruolo, opportuno o meno, serio o non serio, all’interno del repertorio rappresentativo socialmente accettabile e utile.

Un quadro complesso in cui la stampa italiana si districa fra imposizioni di regime e libertà espressive, in direzione di un meccanismo giornalistico in cui la danza evidentemente poteva trovare una ragione di valorizzazione e di indagine, a volte centrale a volte periferica, ma comunque presente nel più ampio affresco della cultura italiana del Ventennio. Un interesse che oscilla fra la necessità di una classificazione tipologica e normativa, l’individuazione di un ruolo funzionale della danza, la contrapposizione fra tradizione italiana e modernità straniera, l’evidenza centrale e scomoda del corpo e quindi della contrapposizione estetica e morale del maschile e del femminile.

Prediligendo l’asse milanese e romano, l’autrice traccia una vasta mappatura di fonti (quotidiani e periodici “indipendenti” o di regime come «Il Corriere della Sera», «La Tribuna», «Il Giornale d’Italia», «Il Popolo di Roma», «Comoedia», «Scenario») e di luoghi (quelli istituzionali: Teatro alla Scala di Milano, Teatro Reale dell’Opera di Roma, Maggio Musicale Fiorentino, cui si aggiungono il Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia e il Teatro di Torino di Riccardo Gualino) che consente di evidenziare una fitta, intricata rete di riflessioni giornalistiche, sempre mantenendo ben saldo e focale il punto di vista sulla corporeità coreutica e sull’individuazione di una specificità di genere.

L’analisi dei contenuti consente all’autrice di sviscerare un complesso scenario di interconnessioni e di tracciare, attraverso considerazioni eterogenee e poliprospettiche, un più vasto e contraddittorio panorama sociale, culturale, politico e artistico, del quale la danza, «suprema aspirazione “terrestre” dell’uomo» (così ancora Savinio), contribuisce a definirne l’autoritratto.



di Caterina Pagnini


Un serio spettacolo non serio. Danza e stampa nell’Italia fascista

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