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Enrico Giacovelli

La bottega delle illusioni. Georges Méliès e il cinema comico e fantastico francese (1896-1914)


Milano, Bietti Heterotopia, 2015, 482 pp., euro 18,70
ISBN 8882483363, 9788882483364

Sulla figura di Georges Méliès è stato scritto molto; eppure in Italia, ad eccezione del “Castoro”, breve seppur importante, di Paolo Cherchi Usai (2009), mancava una biografia completa che entrasse nel merito della sua filmografia e indagasse le sue relazioni con alcune personalità dell’epoca. È questo l’obiettivo, ambizioso, di Enrico Giacovelli, che trova nella giovane collana “Bietti Heterotopia”, interessante realtà editoriale milanese dedicata alla Settima Arte, lo spazio per sviluppare un discorso di ampio respiro. Il risultato è un lavoro che, pur con un forte rigore scientifico, per certi versi enciclopedico, non disprezza toni piacevolmente colloquiali né frequenti voli pindarici. D’altronde, l’approccio alla materia (i legami col cinema comico e fantastico francese coevo) consente di non fossilizzarsi sui semplici dati biografici, garantendo al contrario una certa libertà di movimento.

Ad animare la penna di Giacovelli è un’autentica passione non solo per un autore «portabandiera di un cinema che riusciva a essere artigianale e al tempo stesso autoriale, di un’arte poi divorata a fuoco lento dall’industria che essa stessa aveva contribuito a costruire a consolidare» (p. 19), ma anche per il suo mondo di fate, diavoli, mostri sottomarini, alieni. Riprendendo il concetto espresso da Noël Burch nel suo Il lucernario dell’infinito (Milano, Il Castoro, 2001), per cui le origini della nuova arte sono da ricondurre alle aspirazioni di una borghesia timorosa della morte e desiderosa di mostrarsi, riprodursi e perpetuarsi, possiamo osservare come Méliès riesca a intercettare sia il pubblico borghese sia quello delle classi operaie e rurali. «Méliès non sarà antiborghese in senso stretto, ma è anti-narrativo» e nonostante provenga dal mondo del teatro «i suoi film sono liberi da tutti i condizionamenti e rallentamenti tipici della cultura borghese e piccolo-borghese: soggetto, trama, psicologie, logica e credibilità» (p. 23).

Dopo un primo capitolo introduttivo e uno dedicato al Méliès pre-cinematografico, nel terzo e quarto capitolo vengono presi in esame, rispettivamente, i periodi 1896-1901 e 1902-1906. Questi ultimi vengono definiti da Giacovelli gli anni d’oro della produzione del regista e illusionista francese: quelli della conquista, da parte della Star Film, del pubblico americano e, ancor prima, di quello inglese, con il finto reportage sull’incoronazione di Edoardo VII. Il volume procede cronologicamente, alternando all’analisi del contesto sociale e culturale la descrizione dei film oggi disponibili. Leggiamo ad esempio, per quanto riguarda La lanterne magique (1903), che siamo già a uno stadio in cui «il cinema non si limita a prendere coscienza di essere nato: riconosce i propri genitori e addirittura i propri antenati» (p. 131). O ancora, su La fée carabosse (1906), che Méliès «non era un ideologo, e dove non c’era l’urgenza di una posizione morale dettata dall’attualità si adeguava all’etica crudele delle fiabe» (p. 151).

Divertente il quinto capitolo che sposta il focus dal mago di Montreuil alle figure a lui contigue. Pagine in cui viene resa efficacemente la competizione selvaggia interna alla neonata industria cinematografica: dai plagi spudorati di Charles Pathé, spesso talmente grossolani e volgari da dare vita a «risultati di notevole forza surreale» (p. 166), a quelli del suo successore Ferdinand Zecca, le cui féeries sono tuttavia troppo frettolosamente considerate brutte copie del catalogo della Star Film. Ben diverso il discorso per Segundo de Chomón passato ingiustamente alla storia come un emulo spagnolo di Méliès. Come lui andrebbe rivalutato anche Gaston Velle, prestigiatore e curatore delle fantasmagorie dei fratelli Lumière. Poco tenero con Charles Pathé, Giacovelli lo è ancor meno con Léon Gaumont, imprenditore ignorante e sprezzante che, a quanto pare, ebbe l’unico merito di nominare Alice Guy, allora diciottenne, a capo della produzione dei suoi studios. E ancora, si parla di Lucien NonguetAlbert CappellaniLouise Feuillade, Émile Cohl, e di quella pletora di «registi piccolo-borghesi con aspirazioni intellettuali», come li ha bollati e “sepolti” Burch (ivi, p. 87), che pure hanno frequentato i territori della féerie e del film comico, talvolta con esiti non trascurabili.

Nel sesto capitolo si torna sulla figura di Méliès, interrogandosi sulle ragioni del suo declino. La fase calante inizierebbe nel 1907, con l’istituzionalizzazione del cinema, la sua “svolta narrativa” e il passaggio definitivo dal circuito chiuso di fiere e carrozzoni a un circuito proprio, fatto di sale cinematografiche e grandi capitali: «l’industria si appresta a sbranare l’artigianato, l’omologazione prepara i primi bavagli per la fantasia» (p. 220). Méliès cerca invano di seguire le mode, affiancando a féeries e film di trucchi, temi storici, sentimentali, drammatici e soprattutto comici, come un piccolo Pathé, ma senza averne né i mezzi né la vocazione. Fin troppo tranchant con le pellicole di questo periodo, si diverte ad esempio a distruggere un film osannato da Sadoul e Cherchi Usai come À la conquête du Pole (1912), Giacovelli indaga nel capitolo successivo quello che,  a suo parere, è stato lo sbocco naturale del cinema di Méliès: il comico.

All’inizio una semplice «attrazione tra le altre del cinema delle attrazioni» (p. 254), dal 1908 al 1914 il genere trova la sua espressione migliore. I primi anni sono trattati nel volume per temi, anche per l’anonimia di molti dei materiali a noi pervenuti. Maggiore interesse destano gli ultimi anni, caratterizzati da personalità quali Max LinderJean DurandLéonce Perret e da tutta la fucina di attori afferenti alla Comica, sorta di dépendance della Pathé a Nizza.

Nell’ottavo e ultimo capitolo l’autore riprende il filo biografico, concentrandosi sul Méliès post-cinematografico: dalla relativa fortuna che fece il fratello Gaston, al ritorno al teatro, sino all’abbandono definitivo delle scene e alla riscoperta tardiva presso il negozio di giocattoli della Gare de Montparnasse. Chiude il volume, oltre alla bibliografia di riferimento e alla filmografia mélièsiana integrale (con indicazioni sulla reperibilità dei singoli film), un’utilissima selezione del cinema comico e fantastico francese dal 1895 al 1915.

Il volume riesce a coniugare una solida documentazione a un’autentica passione per il materiale trattato, il tutto condito da una gradevole vena polemica. Le analisi filmiche sono spesso brillanti, talvolta con qualche eccesso di zelo (come nell’ultimo Méliès), ma con slanci interpretativi che in qualche caso portano a una messa in discussione di molti dei preconcetti comunemente accettati sul cinema delle origini. Un ottimo strumento, in definitiva, per chiunque voglia approcciarsi non solo al mago di Montreuil, ma anche al cinema francese comico e fantastico nei suoi primi vent’anni di vita. Tra le pagine di questo libro si respira tutta l’aria della Parigi dei boulevards, ed è sicuramente un bel respirare.


di Raffaele Pavoni


La copertina

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