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Cahiers Jean Vilar. Vilar à l’œuvre. L’Œuvre de Vilar, Nr. 121, 2016


120 pp., euro 10,00
ISSN 0294-3417

In occasione del centenario dalla nascita, si svolse nel 2012 un doppio convegno, dislocato ad Avignone e a Parigi, per rievocare e studiare l’opera di Jean Vilar. Con un ritardo di cui si rammaricano i curatori, ma con uno sguardo sintetico sui contributi allora forniti, esce un fascicolo maggiorato dei Cahiers dedicato a quegli incontri. Il Sommario già misura l’estensione e la varietà degli interventi, diffusi su tanti lati spesso inediti della personalità di Vilar: Atti non integrali, ma significativi, nella scelta di Hélène Laplace-Claverie. Le risorse a cui attingere negli archivi si rivelano ancora vaste e preziose, sicché le illustrazioni propongono numerosi inediti. Fra questi, dettagli dei bozzetti di costumi disegnati da Mario Prassinos (1916-1985) per spettacoli vilariani. Una mostra alla Maison Vilar, da aprile a maggio 2016, ricorda il pittore.

Jacques Téphany sente l’eredità di Vilar come un «passé qui ne passe pas» (p. 7), realtà dal senso molteplice, ma aperta a interpretazioni e scoperte senz’altro feconde.

Laplace-Claverie fa il punto sullo stato della conoscenza e della ricerca, partendo proprio dal materiale pubblicato. Nota la qualità di scrittore di Vilar, l’ambizione a una missione di fatto incompiuta, nello sforzo per diventare il drammaturgo che non trovava fra i contemporanei. Rimarca l’impegno artistico posto a garanzia d’ogni apporto civile e richiama alcuni aspetti che, rispetto alla Francia, meglio lo definiscano dall’esterno, per «redonner quelque étrangeté à Vilar» (p. 9).

Roland Monod si sofferma sulle letture del giovane Vilar, per comporre l’universo letterario in cui si mosse lo studente provinciale giunto da Sète a Parigi. Fino all’esito della Chronique romanesque, sorta di romanzo autobiografico postumo.

Sull’autore drammatico indaga anche Florence Naugrette, ricordando La farce des filles à marier, allestita nel 1941 e analizzando Dans le plus beau pays du monde, inedita e non rappresentata fino al 2012. Stile, strutture e funzioni dei personaggi rivelano il tema insistito della misantropia. Nel testo, modellato su Shakespeare e De Musset, i sentimenti appaiono minati dalla perversità e la verità trionfa a prezzo della morte (p. 22).

Un importante recupero di inediti è messo a frutto da Jérémie Majorel in Jean Vilar et Jeune France, nel quale si ripercorre l’esperienza breve e formativa dell’intellettuale in seno all’Associazione culturale dalla fine del 1940 al marzo del 1942: dal contatto con André Clavé e la collaborazione con la sua compagnia, La Roulotte, agli incontri con Pierre Schaeffer e Maurice Blanchot e con gli artisti Gischia, Pignon e Lajarrige. Nella qualità dell’impegno, pedagogico in particolare, già si preparava alle imprese di Avignone e del Théâtre National Populaire, corroborato nella sensibilità ai rapporti col pubblico (p. 29).

I viaggi artistici del TNP sono esaminati in tre articoli. Cécile Falcon li scorre in generale e in specifico documenta quelli in America, di cui scorge il valore strategico, soggetto a criteri istituzionali tendenti a privilegiare la Comédie-Française. Le tournées in URSS (quattro, dal 1956) se risentono del clima della guerra fredda, ricevono un’accoglienza favorevole alle prove della troupe che a Mosca e a Leningrado recita Don Juan, Le Triomphe de l’amour e Marie Tudor e gode di speciali servizi televisivi. Nel suo bilancio, Vilar sosteneva che «tout régime quel qu’il soit, entrave et contraint les artistes» (p. 45).

Commenta Autant-Mathieu: «L’URSS apparaît à Vilar comme le pays de toutes séductions et de tous les dangers» (p. 45). Le rappresentazioni date in Germania raggiungono uno scopo imprevisto, con la rivelazione agli spettatori tedeschi del valore di un Kleist finora misconosciuto: Le Prince de Hombourg è acclamato, suscita discussioni sulla sua attualità in patria e finisce per influenzare allestimenti posteriori, quelli ad esempio di Peter Stein (1972) e di Manfred Karge e Matthias Langhoff (1978).     

I rapporti con l’Italia sono ricondotti al confronto tra Paolo Grassi e Vilar. Valentina Garavaglia titola Le courage du théâtre. Deux expériences européennes, entre économie et connaissance. È appunto nella dialettica fra dimensioni extra-estetiche che si svolge l’analisi della storica italiana, la quale segnala l’origine gramsciana dell’idea perseguita dal direttore del Piccolo e individua le ragioni politiche della sua gestione in un’Italia tanto differente dalla Francia. Informa su un gemellaggio fra i due teatri (ipotizzato nel 1960 e abbozzato con L’Opera da tre soldi, rappresentata a Parigi), inteso a uno «scambio reciproco di pubblico» (p. 55).

Marion Denizot individua «convergences, divergences» fra le linee di Vilar e di Jeanne Laurent, concernenti il senso del TNP rispetto a quello della décentralisation. Ancora nel campo istituzionale, Frédérique Matonti intona a «des affinités électives» il suo Vilar et le Parti Communiste Français (p. 63).

Nel confronto costante col pubblico, Vilar mostra il «goût de la responsabilité», per Laurent Fleury, che conclude il suo intervento riconducendo alla dimensione etica la partecipazione civile vilariana (p. 72). Similmente valuta Flore Garcin-Marrou in Penser avec Jean Vilar aujourd’hui.

Si entra in campo estetico con Marcel Freydefont, che tratta della concezione scenografica nello spazio, e con Louis Montillet, attento alla distinzione proposta da Vilar fra mise en scène e régie. Montillet è radicale: «Quelles que soient les formes esthétiques, ce sont les excès qui caractérisent la notion de mise en scène. A contrario, pour Vilar, régir consiste dans un premier temps à refuser l’autonomie de la représentation par rapport au texte» (p. 83).

Un altro argomento finora trascurato viene illustrato da Frank Langlois nel rendiconto sull’inchiesta affidata a Vilar dal ministro André Malraux negli anni Sessanta, sulla riorganizzazione dei Teatri lirici nazionali. Molti i dati numerici forniti e le osservazioni; fra le proposte, la costruzione di locali più capienti. Il rapporto sembra essere rimasto senza conseguenze. L’affermazione paradossale «il fut, sans le vouloir, un pionnier du Nouveau Théâtre» è avanzata da Jeanyves Guérin, il quale documenta la sua comunicazione con i pareri critici applicati alle opere contemporanee montate da Vilar: Nuclea di Pichette e La nouvelle Mandragore di Vauthier.

Anche Sartre è coinvolto, quando sposa la linea di «Théâtre populaire» e accusa il TNP di non richiamare un pubblico davvero popolare. Chiude la rassegna Vilar en Avignon: un chapitre de l’histoire immatérielle du Palais des papes di Sophie Biass.

Origini e finalità della Maison Vilar risaltano nella storia di questa istituzione, spiegata con passione da Jacques Téphany.   


di Gianni Poli


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