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Fata Morgana, a. IX, n. 26, maggio-agosto 2015
Quadrimestrale di cinema e visioni

352 pp., euro 15,00
ISSN 1970-5786

Ha ancora senso, alla luce delle trasformazioni a cui è attualmente soggetto il cinema negli ultimi anni parlare di teoria cinematografica? E se sì, come è possibile mantenere la specificità del medium e, contemporaneamente, rendere conto dell’assottigliarsi delle sue caratteristiche distintive? Queste sono le domande da cui prende le mosse il ventiseiesimo numero della rivista, il cui intento è quello da un lato di fare lo stato dell’arte sul dibattito internazionale, dall’altro di tracciare linee di evoluzione percorribili, che in alcuni casi rappresentano per lo studioso vere e proprie sfide per il futuro.

Apre le danze un’interessante intervista di Roberto De Gaetano a Francesco Casetti a proposito del suo recente La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene (link). Il dialogo tra i due getta le basi, idealmente, di tutti gli interventi che seguono, enucleandone le questioni di fondo in maniera programmatica. Qual è il ruolo della teoria a fronte della moltiplicazione e dispersione (o “rilocazione”, per usare il lessico casettiano) dell’“oggetto cinema”? Come conciliare, a fronte del modificarsi delle pratiche di fruizione, lo studio del linguaggio filmico con quello degli effetti di tale linguaggio? Quale tipo di rapporto intrattiene lo spettatore di oggi con le immagini in movimento?

Pietro Montani (Nuovi compiti per la teoria del cinema) risponde a tali quesiti elaborando una concezione “aperta” del montaggio appoggiandosi al concetto di Gilbert Simondon di milieu associé, ossia di ambiente associato a una tecnologia (non a caso, i termini “medium” e “ambiente” in francese vengono tradotti entrambi, appunto, come milieu). Niente, secondo lo studioso, può offrirci strumenti per indagare la sinergia tra gli ambienti “reali” e il web meglio delle teorie sul montaggio di Vertov e Eisenstein. Di dispositivo si parla anche nell’intervento di Antonio Somaini, che riprende la distinzione di Niklas Luhmann tra media e forms, laddove le seconde con la loro instabilità mantengono e garantiscono la plasticità dei primi. Il cinema, si legge, è un concetto tuttora valido, in quanto agente capace di disgregare e riaggregare in continuazione gli elementi che ne fanno parte, e quindi di mantenere la propria persistenza e riconoscibilità.

Numerosi sono gli interventi che, a fronte di una diffusa concezione del cinema come “oggetto”, preferiscono focalizzarsi sull’esperienza del “soggetto”, riconducendo la specificità del medium prioritariamente, se non esclusivamente, alle sue modalità di fruizione. Particolarmente brillante, tra gli altri, il contributo di Salvatore Tedesco, il quale, prendendo le mosse dal testo Esperienza e Povertà di Walter Benjamin, propone una definizione delle immagini, cinematografiche e non, basata esclusivamente sulla loro funzione. Di stampo più ermeneutico il contributo di Vito Zagarrio, secondo cui è solo concentrandoci sul linguaggio cinematografico che possiamo risalire alle modalità di produzione di un’opera filmica. Lo studioso si configura come una specie di detective, chiamato attraverso l’analisi del testo a riconoscere lo stile dell’autore, le strategie della messinscena, l’apparato industriale, il contesto storico e sociale.

Ampio spazio viene concesso anche alle contaminazioni tra film studies e scienze positive. Massimo Locatelli intraprende un viaggio a ritroso concentrandosi sulle figure di Ernst Mach, antesignano delle moderne neuroscienze, e di Gilbert Cohen-Séat, la cui “filmologia” degli anni Quaranta del Novecento ha rappresentato, di fatto, il primo approccio scientifico alla macchina cinematografica. Sbilanciato sulla contemporaneità è, invece, il contributo di Ruggero Eugeni che offre un rapido ma efficace resoconto delle principali contaminazioni degli ultimi tre decenni tra studi cinematografici e scienze sperimentali (neuroscienze in primis). L’auspicio è che si arrivi presto a un superamento della dicotomia, da lui individuata, come una deriva di molta teoria contemporanea, in bilico tra discipline umanistiche e scientifiche, per lasciare spazio alla cosiddetta “terza cultura”: quella antropologica e sociologica.

Si giunge, quindi, alla più classica delle contaminazioni: cinema e filosofia. Daniela Angelucci evidenzia il limite maggiore di questo connubio: considerare le immagini come semplici strumenti, utili unicamente a dimostrare un concetto “altro”. Va riconosciuto, quindi, a Deleuze il merito di aver superato questa impasse, aprendo la strada a una concezione della filosofia come pratica piuttosto che come riflessione a posteriori. A Deleuze è dedicato anche l’intervento di Daniele Dottorini che compara il pensiero del filosofo francese con quello, per certi versi antitetico, di Slavoj Žižek: al centro dell’operazione le pagine che i due intellettuali hanno dedicato, a ventidue anni di distanza l’uno dall’altro, al cinema di Hitchcock.

Non mancano le riflessioni sul rapporto tra teoria cinematografica e tecnologia digitale. Particolarmente efficace, tra gli altri, l’intervento di Valentino Catricalà che propone un’archeologia mediale di lungo raggio. La tecnologia digitale può essere intesa come serializzazione di un flusso di immagini, ma anche e soprattutto nella sua valenza concettuale. È allora possibile tracciare una linea di continuità tra la moderna teoria cinematografica e linee di pensiero come quelle di Max Bense o di Edgar Allan Poe.

Michele Cometa (Sulle origini del fare-immagini) arriva a stabilire, tra i dispositivi ottici tipici dell’animismo “primitivo” e la moderna cultura visuale, una vera e propria “biologia delle immagini”. Secondo lo studioso possiamo riconsiderare l’origine della nostra produzione di immagini e la loro funzione nell’evoluzione dell’homo sapiens.

Mauro Carbone (Fare filosofia tra e attraverso gli schermi) riprende le riflessioni avviate da Casetti e da Sobchack sulla trasformazione dello schermo in display, sempre meno “oggetto” e sempre più “protesi” del nostro sguardo. Sulla relazione tra i media è invece incentrato l’intervento di Federico Zecca il quale si lancia nell’ambizioso e lodevole tentativo di far chiarezza tra i termini “trans-media”, “multi-media”, “cross-media” e “inter-media”, che nel dibattito accademico italiano sono usati spesso in modo confuso se non addirittura contraddittorio.

Segnaliamo, infine, l’importante contributo di Paolo Bertetto, il cui intento dichiarato è quello di mettere in crisi la logica delle teorie tradizionali. Cruciali sono stati, a tal proposito, gli anni Settanta che hanno registrato uno spostamento dell’attenzione euristica dalla specificità al fare, grazie soprattutto all’ondata dei feminist studies (e, in seguito, dei gender studies). Quella di Bertetto è un’importante e “laica” rivalutazione di un filone critico-teorico che, al di là del portato ideologico, è stato capace di dar forma a un vero e proprio metodo, ridefinendo l’essere (del cinema) a partire dal fare. 


di Raffaele Pavoni


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