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Antonio Costa

La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock
Il senso delle cose nei film

Torino, Einaudi, 2014, pp. 300, euro 35,00
ISBN 978-88-06-19860-2

Il titolo dell’ultimo saggio di Antonio Costa è una citazione dalla monumentale opera audiovisiva di Jean luc Godard Histoire(s) du cinéma (1988-1998). Le mele di Cézanne sono quelle dipinte dal pittore evocate da Woody Allen in Manhattan (1980) come una delle cose per cui vale la pena vivere, mentre l’accendino è quello di Delitto per delitto di Alfred Hitchcock (1951). Secondo Godard quello che verrà ricordato da milioni di persone sarà l’accendino di Hitchcock, non le mele di Cézanne, poiché il cinema possiede la forza di ammaliare un pubblico potenziale vastissimo, molto più grande di quello della pittura.

Il volume di Costa è dedicato alle “cose” che vediamo nei film e alla loro capacità di trasformarsi da semplici oggetti di uso quotidiano in elementi di un immaginario condiviso. Non ci si concentra su un particolare autore, attore o genere, né su una cinematografia nazionale, e neppure interessano gli aspetti tecnici, economici o sociologici della materia trattata. La storia del cinema è vista attraverso la categoria degli «esistenti» (p. XIII), per usare una definizione coniata da Casetti e Di Chio (1990). In definitiva tutto ciò che esiste all’interno del film: i personaggi e soprattutto le “cose”. Il libro non intende proporre una teoria degli oggetti, ma definire il loro ruolo nella formazione e nello sviluppo dell’immaginario collettivo cinematografico.

Il saggio si divide in tre parti. Il capitolo iniziale (pp. 5-50) della prima parte ha la funzione di introdurre termini e teorie utili all’analisi in oggetto. Il secondo (pp. 51-94) è dedicato, per metonimia, ai quattro elementi costitutivi del linguaggio cinematografico: terra, acqua, aria e fuoco. Il capitolo finale di questa prima sezione (pp. 95-172) affronta la storia del cinema secondo una prospettiva mirata all’individuazione delle “cose”. Ad esempio il treno e la stazione ferroviaria sono identificati come elementi topici del cinema delle origini e del genere western. Se il cinema muto si concentra sul rapporto conflittuale tra gli oggetti e i personaggi, favorendo la produzione di farse comiche alla maniera di Chaplin e di Keaton, negli anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto nel cinema italiano, con l’aumento generalizzato dei consumi si sviluppa un inedito rapporto tra film e oggetti in virtù di una nuova concezione del design.

Nella seconda parte (pp. 173-262), Costa analizza una categoria particolare di oggetti: i dispositivi ottici, accomunati al cinema dalla funzione del “vedere” e che innescano un meccanismo autoriflessivo che porta lo spettatore a porsi domande sulla natura del linguaggio visivo.

L’ultima parte (pp. 273-320) propone un piccolo dizionario di oggetti ricorrenti nei film, come l’automobile, la bicicletta, la caffettiera, il cappello, il Juicy Salif, il libro, la panchina, il pianoforte, le scarpe, la tazzina da caffè, lo Zippo. Più che offrire una panoramica esaustiva sull’oggettistica nella settima arte, Costa si concentra su un ristretto campionario di exempla per dimostrare l’applicabilità delle più significative metodologie e dei modelli interpretativi descritti nei capitoli precedenti. L’obiettivo dello studioso è quello di affrontare casi emblematici, scolpiti nella memoria degli spettatori, anziché portare in primo piano astratte teorie autoreferenziali. Ricca di spunti è la descrizione dell’approccio al cinema attraverso la cultura materiale (pp. 277-281), che permette di delineare nuove prospettive di ricerca partendo dal confronto interdisciplinare con la storia e con l’antropologia.

Un ricco apparato illustrativo e una bibliografia aggiornata di respiro internazionale corredano il saggio che, per lo stile asciutto e affabile, ha anche il merito di essere una piacevole lettura, capace di coinvolgere l’addetto ai lavori come il semplice appassionato di cinema.


di Nicola Stefani


La copertina

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