Florence
Delay,
membro dellAcadémie Française dal 2000, pubblica una raccolta di Cronache teatrali apparse a suo tempo su
«La Nouvelle Revue Française». Lautrice dichiara il senso di libertà che laccompagna
nellesprimersi a spettacolo finito, senza lurgenza di pubblicare la
recensione di una novità. Si tratta di una condizione che la solleva inoltre
dalla responsabilità di potere influire, col proprio giudizio, sullandamento
della rappresentazione: «Le chroniqueur est sans pouvoir. [...] le genre fait appel à la description, au récit, à la digression, à
lanecdote. Il autorise la mauvaise foi et la joyeuse humeur» (p. 9).
La vasta cultura della scrittrice
pare applicarsi davvero con uninsolita, particolare leggerezza alla visione
degli spettacoli commentati. Lungi dal fornire postille esegetiche, si concede
digressioni e confronti che riescono a inquadrare il gusto del pubblico e le prestazioni
dellinterprete nellambito più generale e complesso dellespressione
artistica. Molti sono gli eventi che hanno indubbiamente segnato il periodo.
Per il semplice curioso, funzionano da richiamo o suggerimento; per gli
specialisti, pongono nuove prospettive nellintegrazione puntuale duna memoria
ricostruttiva di quel tempo già lontano.
Fra gli
spettacoli giudicati «inoubliables», quelli creati dai maggiori registi
allapice della carriera ed esemplari nella loro maturità artistica. Si apre
così la rassegna del 1978 con le impressioni sulla Tétralogie Molière, diretta da Antoine
Vitez, nella quale Delay riscontra corrispondenze tipiche del théâtre des idées propugnato
dallartista. La lunga e complessa rappresentazione, nella sua unità stilistica
composta per variazioni, muove la critica a osservazioni specialistiche sulla
dizione dei versi, quando giudica il «cas désésperé» della pronuncia della e muta e rileva come gli attori di Vitez
finiscano per fare, magnificamente, «beaucoup de bruit autour dun e muet» (p. 22).
Il rapporto con Vitez risulta
forse il più disinvolto, benché impegnativo, poiché si scopre che lautrice avrebbe
avuto una collaborazione drammaturgica diretta col regista, traducendo e
adattando per la scena La Célestine,
di Fernando de Rojas, allestita nel
1989. Proprio a Vitez è dedicata la maggiore attenzione dal punto di vista
quantitativo, con i sorprendenti resoconti a distanza di Les noces de Figaro (Firenze, 1979), Britannicus e Faust
(1981), dove appare «Mephistophélès en cousin néoréaliste du serpent» (p. 227).
In Hamlet (1983), invece, il regista
francese restituisce, con efficace memorizzazione delle immagini, linaudita ricerca
dellinnocence lungo lo spettacolo
shakespeariano nello spazio allitaliana installato a Chaillot. E si assiste ancora
a La Mouette, di Čhecov, dato a Chaillot nel 1984 e a Lécharpe rouge, di Alain
Badiou, salutata come pregnante novità poetica nello stesso anno.
Gli artisti incontrati
comprendono maestri del passato, come Jean-Louis
Barrault, Giorgio Strehler, Peter Brook e Roger Planchon, ma anche numerosi emergenti, come Sobel, Régy, Mnouchkine, Lavelli, Mesguish e Wilson. Fra
gli spettacoli di Barrault, emerge
ledizione «integrale» (1980) di Le soulier
de satin, per la quale Delay rileva, accanto alla simpatica accoglienza
dellattore, linadeguato aggiornamento di décor
e costumi alla mutata sensibilità estetica, rispetto a quella irripetibile
della creazione in tempo di guerra. Diderot
à corps perdu (1979) e Angelo, tyran
de Padoue (1984) rappresentato come «western spaghetti», ricordano gli
altri incontri con Barrault. Poi Delay si dedica a Strehler, che persegue il
proprio trionfo con Goldoni, di cui
rappresenta la Trilogia della villeggiatura.
Ma data in riduzione (e tradotta da Félicien
Marceau) lopera le risulta sminuita, poiché «de cette trilogie montée pour
la première fois il y a vingt ans à Milan, lauteur a disparu» (p. 45).
Assistendo a Lenterrement du patron,
farsa di Dario Fo, nella messa in
scena di Mehemet Ulusoy, nasce una
precisa collocazione dellItaliano fra «politica e cultura» (p. 81).
Di Brook si rievoca Mesure pour mesure (1979), occasione per
discutere della traduzione di Shakespeare.
Quella di Jean-Claude Carrière,
comparata a quella di François-Victor
Hugo, le risulta «dune impunité, dune grâce et dune malice inouïes» (p.
38). Segue La tragédie de Carmen,
valorizzata nella sintesi di amore e morte riportata alle origini del canto. Di
Planchon, la spettatrice apprezza la
novità coerente di Athalie, di Racine e Dom Juan, di Molière (p.
177).
Ariane Mnouchkine è giudicata su Richard II (1981), che suscita la
domanda sul motivo della scelta duna tragedia storica destinata a essere
connotata dallastoricità dun lontano Oriente. Robert Wilson rappresenta Edison (1980) spettacolo affascinante
nelle ripetizioni, di immagini e di voci, impostosi per la sua bellezza. Claude
Régy, con Boto Strauß, appare il più accreditato a interpretare i drammaturghi tedeschi.
Una Pina Bausch agli esordi viene
stroncata per Cafè Müller, dato al
Festival di Nancy (1980) in quanto «beaucoup dexpréssions en effet nexpriment
ni sujet ni objet» (p. 164).
Le
prince de Hombourg,
di Kleist, diretto da Karge e Langhoff, «modernes au sens que nous déplorons» (p. 335) suscita
lirritazione della critica, che abbandona in anticipo la rappresentazione. Interessanti,
per finire, le pagine dedicate al Graal
Théâtre, trittico della durata di nove ore, di cui la Delay è co-autrice
con Jacques Roubaud. Il regista Marcel Maréchal si disimpegna abilmente
nellaffresco medievale, fra la barba imponente di Carlomagno e lingenuità di
Re Artù: unoccasione per illustrare meraviglie e banalità di un «feuilleton»
da palcoscenico. Nazionale, per giunta.
di Gianni Poli
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