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Roxane Martin

L’Émergence de la notion de mise en scène dans le paysage théâtral français (1789-1914)


Paris, Garnier, Collection Classiques, 2014, pp. 258, euro 32
ISBN 978-2-8124-2114-3

 

L’Introduzione e la Conclusione circoscrivono esattamente l’argomento del libro, nella questione centrale riguardante quando e perché sia sorta, con la nozione, la pratica teatrale della mise en scène, dimostratasi determinante nella storia dello spettacolo degli ultimi due secoli. Roxanne Martin sfrutta le acquisizioni più recenti – fra cui gli atti dei convegni La fabrique du théâtre. Avant la mise en scène (a cura di Mara Fazio e Pierre Frantz, Paris, 2010) e Avénement de la mise en scène (a cura di Jean-Pierre Sarrazac e Marco Consolini, Bari, 2010) – per trarne conseguenze ermeneutiche, mediante rigorose premesse metodologiche, quando afferma: «Partant du constat que la datation de la mise en scène posait problème selon qu’on l’interrogeait comme art ou comme métier, nous avons choisi de poser la question sous un angle diffèrent: non pas Quand la mise en scène?, mais Pourquoi la mise en scène?» (p. 11).

La studiosa francese coglie quindi, proprio in coincidenza con la Rivoluzione, un métier che lungo un secolo anticiperà la figura del metteur en scène, fautore di un Teatro d’Arte (in opposizione ideologica ed estetica al teatro boulevardier), fondamento maturo dello spettacolo novecentesco. Precisa: «Cette étude ne cherche pas à construire une histoire esaustive des pratiques scéniques. […] Elle souhaite simplement contextualiser les enjeux que soulève la dimension scénique des œuvres théâtrales entre 1789, date de la représentation du Charles IX de Chénier, et 1914, qui marque la fin de la direction d’Antoine au Théâtre de l’Odéon» (p. 11). Nella progressione cronologica, la trattazione prevede frequenti intersezioni e confronti di dati e avvenimenti, a suffragarne l’interdipendenza e la consonanza con problematiche anche lontane.

 

Dapprima si rileva lo slittamento lessicale per cui la presenza della nuova funzione coordinatrice dello spettacolo assume evidenza. Il capitolo De «mis en scène» à «mise en scène», histoire d’une substantivation (1789-1807) riflette su come la nozione emergente lasci traccia, dal 1801, nelle edizioni delle pièces ed entri rapidamente nel vocabolario giuridico col decreto napoleonico del 25 aprile 1807, nel passaggio da «mis en scène», relativo a un testo rappresentato, alla definizione di «mise en scène» per l’attività realizzatrice dello spettacolo. Si nota anche il successo dell’aggettivo «spectaculaire» applicato allo stile adottato dai teatri privati per conquistare il pubblico. Nel contesto post-rivoluzionario, Martin reperisce numerosi esempi di adesione al nuovo gusto di spettacolarizzazione, per cui ad esempio viene esaltata la vita militare in pièces di successo. La dizione «écriture du spectacle» nasce, in concomitanza della vittoria di Napoleone in Egitto, con la rappresentazione di Victor, ou l’Enfant de la forêt, di César Ribié (1798), «un spectacle imposant et nouveau», apprezzato dalla critica per «les combats, les marches et évolutions militaires et les danses dont cette pièce est ornée» (p. 41).

Il rapporto testo/scena è superato da una «relation triangulaire entre pratique auctoriale, travail scénique et interprétation du spectateur. […] La mise en scène – envisagée soit comme écriture scénique intégrée à la drammaturgie, soit comme réécriture d’une œuvre ancienne – peut désormais jouer un rôle essentiel» (p. 48). Come la scrittura scenica del periodo mira a trasformare la società, così la reazione del pubblico è sensibilissima ai messaggi politici e lo dimostrerà specialmente agli allestimenti di opere del passato. Anche la creazione coreografica assume allora un’originale autonomia, con Jean-Georges Noverre. E intanto, la presenza della censura continua a condizionare gli indirizzi artistici se non addirittura le forme d’espressione.

 

La funzione del metteur en scène si consolida comunque nel melodramma. Durante il regime dei privilegi ristabilito da Napoleone nel 1807, fra i diversi generi il melodramma risulta infatti il più rispondente alle attese, insieme politiche ed emotive, del pubblico postrivoluzionario, sul quale agisce il controllo imperiale. Tanto che ne risentono i tentativi di rinnovamento di François-Joseph Talma, criticato per l’introduzione nel repertorio del Français di stilemi «melodrammatici» estranei ai canoni vigenti (p. 53). La mise en scène segna in crescendo la riforma romantica, quando attorno al 1830 mira a sconvolgere il sistema delle sovvenzioni e delle categorie nei repertori per eliminare confini estetici e di classe troppo vincolanti. Nel 1864, con l’abolizione definitiva dei privilegi e la liberalizzazione dei generi nei teatri, s’accentua l’opposizione fra théâtre littéraire e grand spectacle.

 

Ora la documentazione viene tratta principalmente dalla cronaca e dalla critica, diffuse sulla stampa. «L’art de la mise en scène – osserva l’autrice – s’impose comme un facteur d’attraction des publics» (p. 113) e sempre più riveste una funzione politica. L’influenza della critica è ben dimostrata nella considerazione del lavoro di Jules Janin che sul «Journal des Débats», nel 1845 addita nella nuova figura artistica il protagonista della scena. D’allora, s’evidenzia il contrasto fra produzione e arte, nelle scelte dello spettatore colto e del pubblico popolare, sicché acquisterà senso la battaglia intrapresa da André Antoine e da Jacques Copeau per il Théâtre d’Art. La Martin segue nel Romanticismo l’andamento di drammaturgia e rappresentazione, per segnalare il riconoscimento del nuovo ruolo registico, sebbene privo di statuto giuridico. Verificando la «reconnaissance du metteur en scène comme métier», riconosce come l’artista, mediante «l’autonomie de la mise en scène», instauri una «esthétique plurielle» aperta al futuro.

L’ingresso degli autori romantici alla Comédie-Française nelle collaborazioni di Alexandre Dumas e Victor Hugo viene vissuto come problema di identità nazionale e origina polemiche e cause legali. Mentre si sovrappongono considerazioni ideologiche oltre che estetiche, è forte l’influenza del movimento sul gusto e le abitudini di un pubblico allargato: «Le romantisme fut aussi (surtout) une réponse politique et poétique aux incertitudes du temps» (p. 139). La storiografia critica mostra le sue potenzialità, nell’opera di Théophile Gautier, di cui l’autrice misura la puntualità, la finezza e il peso sull’opinione in seno alla nazione culturale.

 

La Bibliografia (che registra alcune autorevoli voci italiane) mostra  nella sua articolazione uno speciale forzo d’analisi che va sintetizzandosi nel corso della trattazione. Notevole nella suddivisione, rinvia a diverse fonti documentarie, quali Fonds d’archives (7 voci), Annuaires, Almanachs (12), Périodiques (100), Lois, décrets, rapports de police (8), Droits d’auteur (12). Appena indicative, le sei illustrazioni. La linea serrata del discorso principale sollecita una ricerca più minuziosa che si manifesta nel ricorso a Note molto diffuse. Ne deriva una lettura particolarmente impegnativa, per la stratificazione dei fatti, delle idee che li muovono o li spiegano e per le tracce documentarie depositate, le quali richiedono, appunto, un riscontro complementare immediato. Il libro trasmette l’impressione di un lavoro fiducioso in molte, progressive scoperte, latenti nel suo metodo, dedito a una selezione approfondita degli aspetti «materiali» del teatro, così che anche quelli artistici possano rendersi fruibili in più acuta visuale. 

di Gianni Poli


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