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Béatrice Picon-Vallin

Le Théâtre du Soleil. Les cinquante premières années


Arles, Actes Sud-Théâtre du Soleil, pp. 352, euro 45,00
ISBN 978-2-330-03720-8

 

Il Théâtre du Soleil invia periodicamente ai suoi spettatori una Lettera di informazione. In quella del 17 febbraio 2014, mi annunciava il nuovo spettacolo in cantiere, Macbeth e la ricorrenza del cinquantenario della nascita del Teatro, fondato il 29 maggio 1964 secondo lo statuto di «Société cooperative ouvrière de production». A fine anno mi giunge l’allora progettato compendio storico dell’attività del Gruppo, quale dono concreto e prezioso da condividere, quasi in lettura comune, con i tanti italiani appassionati alla vicenda della Cartoucherie. Il lavoro di raccolta e selezione delle idee, dei materiali documentari e illustrativi, si deve a Béatrice Picon-Vallin, da sempre attenta osservatrice e partecipe di quelle esperienze dalle implicazioni estetiche e spirituali di portata mondiale. In quest’opera, l’autrice dà organizzazione coerente e misura critica alle tante voci che concorrono al racconto dell’ensemble parigino, che la presenza di Ariane Mnouchkine continua ad ispirare e animare.

 

Picon-Vallin storicizza passioni, progetti e avvenimenti, profittando di documenti d’archivio (da qualche anno conferiti alla Bnf) ravvivati dalla memoria dei testimoni viventi. I dati pertanto si possono confrontare alla massa già consistente di parole e immagini che hanno costituito, oltre al patrimonio produttivo, impressioni e memorie di tanti spettatori nel mondo (in Italia, ricordo la monografia di S. Bottiroli e R. Gandolfi, Un teatro attraversato dal mondo, Titivillus, 2012, alla quale Picon-Vallin ha dato un contributo particolare). Appare subito l’allargarsi dello sguardo eurocentrico (analogamente a quanto è accaduto col gruppo guidato da Peter Brook) soprattutto nella ricerca dell’ispirazione e dei materiali dello spettacolo, in cui a partire dagli attori, i componenti vivi risultano trasformati e integrati nel processo creativo del Soleil.

 

Da Copeau a Vilar, l’aspirazione a un teatro d’arte, popolare ma non di massa, è stata costante per molti teatranti francesi del Novecento. Per Ariane Mnouchkine e i suoi compagni quell’orientamento ha dimostrato, come anche nello scarto inevitabile, dall’utopia abbia saputo nutrire la loro civile teatralità. Le diverse tappe, dalla fondazione allo sviluppo e alla fama consolidata, vengono ricomposte e illustrate con l’importante apporto dell’iconografia, valore aggiunto al libro, vero concentrato non tanto di sapere, quanto di riferimenti ad esperienze e complicità originali. L’impaginazione, nel formato ampliato (19,6 x 25,5) consente inoltre una lettura di aspetti complementari essenziali: scenografie e costumi d’uno spettacolo si dispongono accanto a testi nati con e per la loro elaborazione o a commento dei risultati probanti. La ricchezza e la specificità delle immagini, spesso inedite, dai manoscritti alle maschere, dalle sequenze fotografiche alle interviste più recenti e ad hoc (svolte dall’autrice fra ottobre 2013 e maggio 2014), ne fanno un’opera unica e nuova.

 

I capitoli segnano momenti di passaggio (o valichi ideali), integrati dalle sei Tavole tematiche poste a conclusione: «Un choix d’images sur quelques thèmes retenus – les marionnettes, les animaux, les chariots, les toiles et soies, les enfants, les saluts – donnera au lecteur quelques clés d’entrée dans le monde du Soleil» (p. 291). Colti nel Prologo le condizioni delle origini, i moventi e le persone implicate, si parte (dopo il soggiorno inglese di Mnouchkine) dalla costituzione dell’ATEP, Associazione studentesca per la quale Ariane darà la sua prima e unica regia con Gengis Khan (1961) per passare alla forma cooperativa e personalizzata del Théâtre du Soleil, all’insegna del Teatro Popolare, inteso a offrire «un spectacle beau, lisible, qui parle de quelque chose d’important et qui concerne les gens» (p. 43). La creazione collettiva appare in quel periodo funzionale proprio alla conquista della meta: «Le théâtre, c’est l’art de l’autre» (p. 13). S’inaugura con Les petits bourgeois di Gorki (1964) a cui seguono Le Capitaine Fracasse, di Gautier (1966) e La cuisine di Wesker (1967). Si giunge al dittico della rivoluzione, partendo da 1789, creato a Milano nel 1970 e completato da 1793.

 

L’inesauribile fantasia di Shakespeare stimola ad affrontare in un unico ciclo, cinque sue grandi opere, rappresentate dal 1982 al 1984. Scelta sollecitata a Mnouchkine da un incontro: «Je suis entrée dans une salle de kabuki. Ce n’était pas du Shakespeare, mais je voyais du Shakespeare!» (p. 113). Lavoro che comprese la traduzione dei testi oltre che la scelta di costumi e cadenze sensibili a modelli orientali. Così appare logico per il Gruppo trasferirsi mentalmente in un Oriente fantasticato e leggere la storia recente attraverso vaste epopee asiatiche, col contributo drammaturgico di Hélène Cixous. Quei nuovi orizzonti producono le accensioni culturali ed emotive di L’Histoire terribile mais inachevée de Norodom Sihanouk, roi du Cambodge (1985) e L’Indiade ou l’Inde de leurs rêves (1987). Poi Picon-Vallin, ripensando al ciclo degli Atridi (da Euripide ed Eschilo), definisce L’archéologie des passions il grandioso spettacolo (dato sia in due parti sia in integrale) composto da Iphigénie à Aulis e Orestie (1990-1992). Con la tragedia greca, la regista affronta un viaggio alle sorgenti perdute del teatro occidentale. Citando ancora Mnouchkine, «La scène, c’est le terrain vague du sublime» (p. 183), l’autrice confessa la difficoltà di rendere clima e realtà tipici di quell’evento non soltanto a causa della varietà delle opere, ma anche per la diversità degli artisti: «A ce point de l’histoire, je suis prise d’angoisse, submergée devant les multitudes qui sont maintenant entrées au Soleil» (p.183). Il grande affresco attinge agli stili d’Oriente recuperando quelli primordiali d’Occidente, mirando a un teatro totale, per «l’alliance des Arts frères» (p. 189). In particolare i cori, danzati, cantati e musicati in scena da Jean-Jacques Lemêtre, agiscono in un dispositivo fisso, costruito per l’occasione in mattoni, pietra e gesso, di cui le fotografie mostrano progetto e realizzazione. Sorprendenti, a posteriori, le considerazioni della creatrice sul processo d’invenzione e direzione allora affrontato e risolto (p. 192). Urgenze imposte dall’attualità si riscontrano quasi a contrappunto nel successivo La Ville parjure ou le Réveil des Erynies (1994) di Cixous. L’unico classico francese è Tartuffe, allestito nel 1995, che condurrà al film su Molière e confermerà una ricerca feconda anche nel futuro. Il collettivo pratica ancora una drammaturgia composita (collaborando con Cixous) in Et soudain des nuits d’éveil (1997) e al valico del XXI secolo propone un lavoro di Cixous per «marionette azionate da attori», Tambours sur la digue.

 

L’ultimo capitolo è dedicato alla rievocazione degli spettacoli nel nuovo secolo, Le dernier Caravansérail (2003), Les Éphémères (2006) e Les Naufragés du Fol Espoir (2010). Si conoscono così (per colloquio diretto coi protagonisti) i piccoli espedienti tecnici e pratici collaterali a numerose elaborazioni, individuali o corali, quali ad esempio la stesura di Note (a partire da Tambours) trascritte giorno per giorno, riorganizzate ogni settimana, che consentono lungo le prove la fissazione e il montaggio delle improvvisazioni. Un metodo scientemente perseguito e aderente ad esigenze via via collaudate, come testimonia Charles-Henri Bradier (p. 259). Quanto all’ultima prova (prima della rappresentazione di Macbeth nell’aprile 2014), Picon-Vallin ricorda che Les Naufragés du Fol Espoir s’intitolava in precedenza L’Autre Route. Con la metafora d’un cammino alternativo conclude quindi l’autrice, mentre raccoglie e commenta i molti e complementari motivi della durata di codesta realtà (p. 319). Il libro si chiude con una Lettera (2013) di Ariane Mnouchkine agli allievi dell’E.N.S.A.T.T. e le locandine complete di tutti gli spettacoli. Ma ancora una sorpresa editoriale s’incontra nell’allegato di sedici paginette, in cui Mnouchkine a congedo consegna, con alcuni pensieri estremi, le sue «clés de l’épopée».

 

                                                                                    

di Gianni Poli


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