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Lucia Di Girolamo

Il cinema e la città
Identità, riscritture e sopravvivenze nel primo cinema napoletano

Edizioni ETS, Pisa, 2014, 146 pp., 14,00 euro.
ISBN 978-884673921-6

Quando il cinema arriva a Napoli, sul finire dell’Ottocento, è il café-chantant del Salone Margherita ad accoglierlo nel tessuto urbano e la città ben presto sa volgere la nuova tecnologia al suo servizio, facendone l’ennesima occasione per la propria celebrazione. Il cinema e la città, di Lucia Di Girolamo, mediante la piacevole prosa dell’autrice, ricostruisce la storia dell’arrivo del cinema a Napoli, dall’impatto sul tessuto urbano con la conseguente concentrazione di sale e teatri di posa nella zona del nuovo ed elegante quartiere del Vomero, all’effetto dei film napoletani sul pubblico e sulle testate più influenti del settore (come La Cine-fono e la rivista fono-cinematografica e Film).

Diviso in cinque sezioni principali, il percorso storico-analitico tracciato da Di Girolamo inizia proprio soffermandosi approfonditamente sulla penetrazione dei cinematografi nel tessuto urbano (nel capitolo Luoghi. La città e l’invasione dei cinematografi), quindi prosegue (nel capitolo Cinematografi e vita cittadina) affrontando il controverso rapporto del pubblico con l’arrivo del cinema, colpevole di mescolare “pericolosamente” le classi sociali nel buio della sala e che allorché inserito nel contesto della tradizionale festa popolare di Piedigrotta «desta fastidio e sconcerto»[1], in quanto avvertito come «fuori contesto»[2]. Proprio al fine di disciplinare il pubblico, la stampa di categoria, spesso al soldo di case di produzione e distribuzione, mette in atto «un’accorta strategia di vendita del cinema come divertimento per tutti, accessibile, coinvolgente e suscettibile di essere fonte di disciplina»[3].

La terza sezione, dal titolo Ambiziosi mercanti, analizza la realtà produttiva napoletana dei primi decenni del Novecento, prolifica benché spesso caratterizzata da aspetti riconducibili alla fisionomia delle aziende a conduzione familiare. Alle principali realtà produttive napoletane (la Dora Film di Elvira Notari, la Vesuvio Film, la Polifilm, la Lombardo-Teatro Film e la Lombardo Film di Gustavo Lombardo) si affiancano aziende minori (come la Partenope Film di Roberto Troncone e la Vomero Film), tutte comunque caratterizzate da uno stretto legame con la cultura e le tradizioni locali, a prescindere dall’ambizione a conquistare il solo pubblico napoletano o a superare i confini partenopei.

Per quanto riguarda la distribuzione è la figura di Gustavo Lombardo a farla da padrone: la sua ascesa, cominciata nel 1907 con la rappresentanza della Film Italiana di Torino e proseguita con la fondazione della rivista Lux (1908) e dell’effimera Sigla (Società Italiana Gustavo Lombardo Anonima) nel 1910 (ma già l’anno successivo posta in liquidazione), poi con la partecipazione alla Diva (Divertimenti e Imprese Varie), lo porta in breve tempo ad assicurarsi il controllo di tutto il ciclo di distribuzione, dall’acquisto del film (in seguito del noleggio) alla campagna pubblicitaria, per la quale dimostra spiccate doti intuitive. Raggiungerà l’ambito obiettivo di una concentrazione monopolistica del noleggio con l’istituzione del Monopolio Lombardo, aprendo ad ogni modo la strada alla moderna distribuzione delle pellicole.

Fin dagli esordi, la produzione cinematografica napoletana attinge a piene mani alle fonti della tradizione locale, recuperandone gli stereotipi che l’hanno resa celebre nel mondo: «attingere al romanzo, al teatro e alla canzone significa muoversi sul terreno sicuro di un’enciclopedia di valori e saperi condivisi»[4], sottolinea l’autrice nella quarta sezione del libro, intitolata Riscrivere la tradizione: cinema e sopravvivenze.

Chiude lo studio di Di Girolamo il capitolo Migrazioni e convergenze: Fenesta che lucive…, un case study, dedicato alla secolare tradizione di un fatto realmente accaduto, di cui fu protagonista la  siciliana Baronessa di Carini, poi rielaborato in un poemetto cinquecentesco, quindi narrato dai cantastorie di tutte le regioni d’Italia, fino all’arrivo a Napoli, dove il celebre dramma d’amore divenne il soggetto della nota canzone Fenesta che lucive… È a questa che appunto s’ispira il film prodotto nel 1914 dalla Partenope Film, collocando però la storia sullo sfondo della recente guerra di Libia, attualizzando così la vicenda narrata.

Nel 1925 ne viene realizzata una nuova versione cinematografica dall’Astra Film, piuttosto simile –  nella struttura del racconto – a quella del 1914. Stavolta, per aggiornare la vicenda, è la prima guerra mondiale a fare da sfondo, mirando così a un pubblico più vasto di quello nazionale. Un ampliamento di orizzonti che passa attraverso la trasfigurazione della città, il cui paesaggio urbano viene ridotto a poche immagini “da cartolina”, e «l’umanità intensa del primo film diventa nel secondo quasi finta».[5] In altre parole attraverso un vero e proprio «processo di stilizzazione»[6], la storia del primo film viene ridotta a cliché nel secondo. Tra le due versioni cinematografiche, si colloca il manoscritto di un dramma degli anni Dieci attribuito a Crescenzo di Maio e diviso in quattro atti più un quinto aggiunto in seguito, che presenta un finale alternativo. Di Girolamo mette a confronto il testo teatrale con le due versioni cinematografiche, evidenziandone puntualmente analogie e differenze e dimostrando così come la drammatica vicenda narrata si sia piegata di volta in volta alle esigenze del mezzo coinvolto e del momento.

«La conquista della platea partenopea passa attraverso il riuso di storie e atmosfere profondamente radicate nella memoria locale. Dalla Dora Film alla Polifilm, tutte le principali società cinematografiche attingono al ricco e variegato patrimonio teatrale canoro e letterario di Napoli»[7]. Dunque, conclude l’autrice, «il cinema si afferma come l’ultimo, efficace dispositivo di riscrittura delle forme dell’immaginario urbano»[8].

Scorrevole e ricco di accurate informazioni, il testo di Lucia Di Girolamo è un ottimo approfondimento non solo per quanto concerne la cultura partenopea, ma anche e soprattutto per la storia del cinema muto.



[1] Lucia Di Girolamo, Il cinema e la città, Edizioni ETS, Pisa, 2014, p.35.  

[2] Ibidem.

[3] Ivi, p. 38.

[4] Ivi, p. 96.

[5] Ivi, p. 124.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, p. 134.

[8] Ivi, p. 136. 

 
di Elisa Uffreduzzi


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