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Ivo Van Hove. Introduction et entretiens par Frédéric Maurin


Actes Sud-Papiers, 2014, pp. 92, euro 14,00
ISBN 978-2-330-02391-1

 

Una generazione di cinquantenni è oggi al centro della gestione teatrale europea. Eclettici, autodidatti ed estroversi, soprattutto itineranti se non apolidi, sono i registi che segnano e decidono pratiche e tendenze nello spettacolo. Ivo van Hove, d’origine belga fiamminga, nato a Kwaadmechelen nel 1958, ha studiato ad Anversa, lì s’è accostato al teatro e ha fondato la sua prima compagnia nel 1981. Oggi è direttore del maggior complesso olandese, il Toneelgroep di Amsterdam. Quasi rammaricandosi della distrazione durata diversi decenni, gli osservatori francesi s’appropriano adesso dell’esperienza in progress di van Hove e riflettono sulla sua opera in un volumetto della Collana «Mettre en scène». L’Introduzione è dello specialista Frédéric Maurin - a sua volta emergente dal nucleo dell’Istituto di Studi Teatrali della Sorbonne Nouvelle di Parigi - il quale ci informa sulle residenze e tappe successive dell’artista; sulle sue ricerche da principio non orientate esteticamente, ma offerte all’istinto e alla sensibilità; ricondotte in seguito a un impegno sistematico che gli ha valso un centinaio di creazioni. Anversa è il luogo dell’esordio, sia creativo sia pedagogico. Poi, nei Paesi Bassi, l’attività si svolge a Heindhoven e Amsterdam. Gli spostamenti e le collaborazioni riguardano intanto New York e Seul, Santiago e Melbourne. Lo straordinario repertorio che va accumulandosi è rappresentativo di una drammaturgia mondiale che comprende l’opera lirica.

 

I testi dell’autore qui presentati sono costituiti da interviste (2011-2013) e nel loro svolgimento sintetico e programmatico, mostrano chiarezza di scopi e maturità di scelte espressive. Dichiara all’inizio van Hove: «Le seul théâtre qui vaille est pour moi un théâtre né d’un désir irrépressible, d’une profonde nécessité, comme s’il était vital de dire ce qu’on a à dire au moment où on le dit» (p. 19). Frequentando l’Istituto Nazionale Superiore di arti dello spettacolo di Bruxelles, l’artista ha incontrato insegnanti decisivi per la sua formazione. In particolare, Alex van Rayen lo ha indotto a una seria disciplina : «Par-dessus tout, il m’a appris une chose fondamentale, que je n’oublierai jamais: l’objectivité du texte n’existe pas, on invente sa vérité en en produisant une interprétation. C’est une chose tout simple, mais essentielle» (p. 24). Gli incontri d’allora, con Jan Fabre, Guy Cassiers, Jan Lauwers, Anne Teresa De Kaesrmaeker, si consolidano e s’allargano in rapporti fecondi. Il giovane artista è chiamato da Dora van der Groen, direttrice del Conservatorio di Anversa, a insegnare nell’Istituto (1985-1997). Non considerandosi un «insegnante di recitazione», insisteva su dettami empirici, suggerendo «la ligne du travail dans la continuità: reconnaître les articulations, les pics et les virages, savoir où attaquer, quand se mettre en retrait, pourquoi réagir ou non» (p. 30). Nell’indirizzare gli aspiranti metteurs en scène, curava di «lui faire prendre conscience de ce qui ne fonctionne pas, de ce qui pourrait être davantage tenu ou davantage développé» (p. 32).

 

Fra gli artisti che lo hanno segnato, ricorda Oskar Panizza, Peter Stein, Patrice Chéreau. Grazie al lavoro di Karl-Ernst Hermann per La clemenza di Tito, ha superato i pregiudizi per l’opera lirica. Quanto alla performance, la dichiara alimento d’ogni suo spettacolo, in cui pulsioni e comportamenti reali acquistano un valore estetico non esclusivamente formale. Gli attori accettano così autentici pericoli, «acceptent cette situation de vulnerabilité humaine […]. Il laissent affleurer le présent dans ce qu’il a de plus vif et de plus imprévisible» (p. 35). Nella scelta dei testi, anch’essa frutto di originale spregiudicatezza (di Müller, Caldéron de la Barca, Ibsen, Wedekind, Koltès, Genet, Bergman, Cassavetes), spiega perché e come abbia spesso allestito opere nate in ambito realista per esaltarne le valenze più astrattamente universali. Anche l’uso della tecnologia (microfoni, proiezioni video) contribuisce al senso globale impresso allo spettacolo. Per la sua più recente Compagnia, che si rinnova nel ricambio generazionale e nella libertà dell’ispirazione, il direttore cura provini annuali, affinché «toutes les tranches d’âge soient représentées, de vingt à soixante-dix ans» (p. 50). Fra gli altri paragrafi, quelli dedicati a Musique et Opéra, L’étranger e L’artiste et le manager, in cui si tratta ad esempio del lavoro presso il Theatre Workshop di New York, dove ha realizzato negli anni 1990 rappresentazioni di drammi di O’ Neill in uno stile agli antipodi della tradizione americana. Nell’assumere le due responsabilità, amministrativa e artistica, del Toneelgroep, van Hove si compiace di mostrarsi all’altezza delle funzioni complementari, mentre riesce a concedersi una specie di bulimia: in effetti, «c’est surtout de l’appétit, un appétit de création» (p. 72). Repères chronologiques e Bibliographie sélective completano il volume.

 

di Gianni Poli


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