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Bianco e nero
Rivista quadrimestrale del Centro Sperimentale di Cinematografia

A cura di Alberto Crespi

anno LXXIV, n. 576-577, maggio-dicembre 2013, pp. 207, € 42,50
ISSN 978-88-430-6855-5

 

In coincidenza con l’uscita nelle sale italiane della copia restaurata del film Il Gattopardo (1960), a cura della Cineteca di Bologna, la rivista «Bianco e Nero» (576 - 577) dedica un intero numero al rapporto tra il cinema italiano e la storia, prendendo spunto proprio dal capolavoro di Luchino Visconti del 1960, tratto dall’omonimo romanzo di Tomasi di Lampedusa, per abbracciare un lasso di tempo che va dagli anni ’60 fino alla contemporaneità.

 

A introdurre il volume, dopo il consueto editoriale a firma del direttore Alberto Crespi, è la riproposta del dibattito - trascritto la prima volta su «Bianco e nero» n. 1 del 1961 - tra Carlo Lizzani e gli studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma in coincidenza dell’uscita del film Il Gobbo (1960). Il dibattito introduce “idealmente” al contenuto della rivista e, nello stesso tempo, rende omaggio a un regista e intellettuale che ha attraversato la storia italiana dalla Seconda Guerra Mondiale fino ai giorni nostri, e della quale ha saputo raccontare i lati più oscuri e meno conosciuti.

 

La prima parte della rivista ha per titolo Storie di gattopardi e di caimani e si apre con la  pubblicazione di sette pagine della sceneggiatura del film, mentre di seguito troviamo le interviste a Burt Lancaster e al celebre costumista Piero Tosi. Un leone infastidito dalle mosche ripropone un’intervista effettuata da Caterina DAmico (figlia di Susi Cecchi DAmico, sceneggiatrice del film) nel 1986 all’attore americano. Dopo una serie di aneddoti sulla lavorazione del film - il plurilinguismo che c’era sul set, l’ossessione di Visconti per le prove e la velocità con cui invece girava le scene -, Lancaster racconta di essere stato scelto dopo che la 20th Century Fox aveva contribuito alla produzione della pellicola di Visconti.

 

Quando Azucena cuciva le camice rosse raccoglie un’intervista a Piero Tosi a cura di Caterina Cerra e Alessandra Costa. Il costumista, vincitore lo scorso anno dell’Accademy Awards alla carriera e oggi impegnato come docente presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, ripercorre le fasi della lavorazione del film. Sfatando alcune leggende sull’ossessione di Visconti per i minimi particolari, Tosi racconta il rapporto (impossibile) tra lui e il regista. Inoltre si sofferma sull’influsso esercitato - nella creazione dei costumi - da parte dei dagherrotipi e della letteratura dell’epoca, a cominciare dai romanzi di Honoré de Balzac e Émile Zola.

 

Dopo le due interviste è il momento dei saggi. Il primo è quello del regista Roberto Andò, dal titolo Lampedusa e Visconti - Nobili, clandestini, delatori. Nel suo saggio Andò riflette sulla figura dell’intellettuale meridionale, da Tomasi di Lampedusa fino a Saviano. Inoltre, parlando della messa in scena viscontiana evidenzia come il regista fu capace di saper mutare la sua estetica, abbandonando definitivamente il realismo per immergersi nel romanzesco, raccontando, attraverso le vicende di una famiglia nobile siciliana, il declino dell’Italia moderna.

 

Il principe e le films - Nuovo cinema Lampedusa di Alberto Anile invece tratta della passione di Tomasi di Lampedusa nei confronti del cinema e le possibili influenze che quest’ultimo ha avuto sulla sua opera. Partendo da un passo del romanzo, in cui Tomasi cita esplicitamente Sergej Ėjzenštein, Anile mette in evidenza altre possibili influenze, per altro già evidenziate da taluni studiosi. Elio Vittorini, ad esempio, sostenne che l’agonia di Don Fabrizio somigliasse troppo a quella di Toulouse - Lautrec in Moulin Rouge (1952) di John Huston: tuttavia la moglie di Tomasi, Alexandra Wolff smentì che il marito avesse mai visto il film. Mentre Sciascia per la prima apparizione di Angelica parlò di una descrizione molto cinematografica. Oltre a queste precedenti intuizioni di Sciascia e Vittorini, Anile fa riferimento ad altri due film che avrebbero ispirato, secondo lui, il romanzo di Tomasi: Il Brigante di Tacca del Lupo (1952) di Pietro Germi e Via con vento (1939) di Victor Fleming.

 

L’ultimo saggio dedicato esclusivamente a Il Gattopardo è quello di Piero Spilla, QuellOssessione che piacque a Togliatti, nel quale vengono indagati gli aspetti tecnico-cinematografici del modus operandi viscontiano e la natura anti letteraria del suo cinema. Benché infatti tutti i film diretti da Visconti siano tratti - o traggano ispirazione - da romanzi, Spilla coglie la capacità del regista non solo di sapere interpretare le fonti romanzesche, ma di saperle adattare al mezzo cinematografico. Il saggio si concentra successivamente su tre sequenze che Spilla prende ad esempio per mostrare l’intelligenza e l’acume visivo di Visconti e l’attenzione rivolta verso piccoli particolari che però divengono, dal punto di vista del «significato», estremamente importanti. Si comincia con l’analizzare la scena d’apertura del film, concentrandosi su il micro elemento della tenda scompigliata dal vento. Successivamente viene presa in esame la scena in cui la figlia del Principe, Concetta, incontra per l’ultima volta il conte Cavriaghi, alternata con la sequenza del dialogo fra il Principe e Chevallay: sequenza conclusa con la panoramica “verso l’abisso” che, partendo da Concetta e dal conte, va a svelare la cittadina e diviene immagine di un abisso che divora tutti coloro che verranno sconfitti dalla Storia. L’ultima parte del saggio è invece dedicata alla celebre sequenza finale del ballo, intesa in quanto danse macabre.

 

Pietro Cavallo è autore del saggio Italia 61: sullo schermo è il boom del risorgimento. L’intervento mira a riflettere sulla lettura del Risorgimento proposta da Visconti, mettendola a confronto con Viva lItalia! (1961) di Roberto Rossellini, film palesemente prodotto a fini celebrativi nel 1961, per il centenario dell’unità d’Italia. Attraverso il confronto tra le due pellicole, Cavallo mostra quanto il film di Visconti rifletta anche sulla contemporaneità.

 

Il saggio che segue, Vecchi e giovani, Gattopardi e viceré - Il cinema antistorico italiano di Anton Giulio Mancino riflette sulla «antistoricità» di una parte del cinema storico italiano, sottolineandone la presa di distanza nei confronti della storiografia ufficiale nel tentativo di penetrare nelle contraddizioni della Storia attraverso la fiction cinematografica, come fanno film quali Il Gattopardo, I Viceré (2007) di Roberto Faenza e I vecchi e i giovani (1979) di Marco Leto, tratto dal romanzo di Luigi Pirandello.

 

A Luigi Magni è dedicato il saggio di Pasquale Iaccio Nellanno del signore 1968, il cui titolo esplicita il legame che intercorre tra gli eventi della fine degli anni ’60 e l’opera del regista romano. Iaccio evidenzia come i film di Magni rappresentino un unicum nella storia del cinema italiano avente come soggetto il Risorgimento. Rispetto a Visconti e Faenza, Magni attraverso i suoi film risorgimentali assume il punto di vista dei poveri, di coloro che sono sempre stati dimenticati dalle ricostruzioni storiche ufficiali e racconta storia profondamente radicate nella “romanità”, ereditando la tradizione della Roma popolare e del teatro regionale.

 

Benigni e Mameli a Sanremo - Storia  dellInno che non c’è di David Bidussa rappresenta invece un “cantuccio” slegato rispetto al resto degli interventi e prende spunto dal monologo che Roberto Benigni (Festival di Sanremo del 2011) ha dedicato alla storia dell’inno composto da Goffredo Mameli.

 

Ritornando alla saggistica a carattere cinematografico, e rimanendo negli anni ’60, Maria Elena DAmelio è l’autrice del saggio Ercole Roosevelt e Maciste Truman, riadattamento del suo saggio Hercules Politics and Movies, pubblicato nel volume Of Muscles and Men: Essays on the Swords and Sandal Film, a cura di Michael G. Cornelius e pubblicato da McFardalnd & Company (Jefferson, USA, 2011). Partendo dall’affermazione di Paul Sorlin secondo cui il film storico parla sempre di due tempi, quello in cui è ambientata la storia narrata e quello in cui il film è prodotto, la D’Amelio affronta il genere peplum di produzione italiana degli anni ’60 evidenziandone i risvolti storico-politici. Da una parte c’è l’ombra del fascismo in quanto minaccia di un passato (neanche troppo remoto) che continua a incombere sulla contemporaneità (I due gladiatori, di Mario Caiano, 1964), dall’altra il riferimento (più o meno esplicito) al tema della Resistenza della Guerra Civile (Gli amori di Ercole, 1960). D’Amelio inoltre precisa che l’eroe in questi film è quasi sempre interpretato da un attore americano, scelta che simboleggia - a suo parere - l’America di Truman e del piano Marshall, ovvero la nazione del benessere e della democrazia.

 

Rimanendo sempre nell’orbita del cinema di genere, Christian Uva dedica il suo saggio, Il buono, il brutto e il fascista: di cosa parlano gli spaghetti-western?, al cinema western italiano degli anni ’60 e ‘70. Uva prende in esame i riferimenti storico-politici all’interno di alcuni film del genere, in modo particolare il tema della Resistenza, presente sia nei film di Sollima, Questi e Damiani che nelle opere di Sergio Leone. La seconda parte del saggio infatti è incentrata sul rapporto tra il cinema di quest’ultimo e la memoria storica, in modo particolare all’interno di Il buono, il brutto e il cattivo (1966) e Giù la testa (1971).

 

Stampate la storia! I mori nazisti di Vittorio Cottafavi presenta invece un’intervista di Alberto Crespi a Gianni Amelio. Amelio analizza alcune sequenze del film di Vittorio Cottafavi I cento cavalieri (1964), che, pur essendo ambientato nella Spagna durante l’occupazione araba, parla della Resistenza italiana; non a caso i mori sono tutti interpretati da attori alti e biondi che richiamano i tratti somatici germanici.

 

Flavio De Bernardis è autore del saggio Dove nascono i caimani, dedicato a Nanni Moretti, autore che ha sempre saputo raccontare la storia del proprio paese, in modo particolare la contemporaneità. Il Moretti che interessa a De Bernardis è quello legato all’epoca berlusconiana. Se il personaggio Silvio Berlusconi è stato al centro del film Il Caimano (2006), De Bernardis un po’ a sorpresa decide di concentrarsi su un film all’apparenza meno legato a tematiche politico-sociali, La stanza del figlio (2001). Nel film però, secondo il saggista, si può riscontrare la descrizione chirurgica della borghesia (progressista) all’epoca del berlusconismo. Vengono infatti portati alla luce alcuni temi propri di tale realtà, a cominciare da quel “Culto dell’Io” di cui è vittima il padre (interpretato dallo stesso Moretti), elemento che non gli consente di entrare in contatto con quel figlio di cui non riesce a comprendere le intenzioni.

 

Marco Bertozzi invece dedica il suo saggio Larchivio Bellocchio a un aspetto che ritorna costantemente nel cinema del regista emiliano: l’uso delle immagini di foundfootage. Bertozzi propone un percorso a-cronologico che si basa proprio sull’uso delle fonti, concentrandosi sulle opere più recenti: Buongiorno notte (2003), Vincere (2009), Il regista di matrimoni (2006) e Lora di religione (2002). Il saggio mette in evidenza i diversi modi in cui il regista piacentino adopera il materiale d’archivio.

 

I due corpi del Divo - Le maschere del politico: Andreotti, Thatcher, Elisabetta II di Pierpaolo Antonello riflette sull’immagine del potere partendo dal film di Paolo Sorrentino Il Divo (2008) e comparandolo ad altre pellicole contemporanee, The Queen (2006) di Stephen Frears (sulla Regina Elisabetta II), Frost/Nixon (2008) di Ron Howard (su Nixon) e The Iron Lady (2011) di Phylippa Lloyd (su Margareth Tatcher). A contraddistinguere i film presi in esame è sopratutto il tema del potere e che si cela dietro la maschera. Ecco, secondo Antonello, ciò che contraddistingue queste opere: la volontà di fare del personaggio (storico) una maschera. Proprio a tale scopo i rispettivi registi dei film citati, a cominciare da Sorrentino, adottano lo stesso stratagemma: chiamano a interpretare i ruoli chiave ad attori famosi, in modo tale che proprio l’interprete possa oltrepassare il personaggio stesso. Questa peculiarità dimostra quanto queste opere riflettano sulla dimensione politica più che attraverso la costruzione del plot, attraverso il corpo dell’attore, concentrandosi esclusivamente su di esso.

 

L’ultimo saggio della prima parte della rivista ha come titolo La meglio e la peggio gioventù ed è scritto da Claudio Bisoni. Il saggio si concentra sulla rappresentazione degli anni ’70 presente nel film/serie tv La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana e nella serie tv Romanzo Criminale di Sergio Sollima, ispirata all’omonimo film di Michele Placido (2005). Per argomentare la sua tesi Bisoni prende il esame il modo in cui entrambi i film citati usano le fonti d’archivio all’interno della narrazione.

 

La seconda e ultima parte della rivista è dedicata ai Mestieri del CSC (Centro Sperimentale di Cinematografia). Il primo intervento firmato da Massimo Propolino, importante montatore italiano e ora docente al Centro Sperimentale, e s’intitola No Traspassing! - Elogio delluomo che inventò il rugby. Propolino scrive una “lettera aperta” decisamente poco accademica ma molto emotiva, in cui esprime la sua idea di insegnamento e d’insegnante, non rimanendo legato alla sua specifica materia, ma abbracciando qualunque ambito d’insegnamento. Il secondo intervento, Dalleammucchiate alle Writers Rooms, porta la firma di Michele Abatantuono e ci introduce nello spazio creativo delle writers’ rooms, stanze all’interno delle quali diversi sceneggiatori collaborano alla creazione di soggetti e sceneggiature. Nelle webseries nessuno può sentirti urlare conclude la sezione e contiene un’intervista, a cura di Gino Ventriglia allo sceneggiatore Adam Sigel. Si parla di «trasmedialità» e, in modo particolare, dell’espansione delle webseries. Partendo dalle origini del cinema, quando quest’ultimo era ancora - per dirla alla André Gaudreault - «un reticolo intermediale» soggetto alle influenze di fotografia, pittura, teatro, Sigel viene interrogato da Ventriglia sul ruolo che le nuove piattaforme digitali possono avere all’interno della produzione e distribuzione di materiale video, ma anche sul futuro delle webseries e su come la produzione statunitense (leggi Hollywood) osserva queste nuove possibilità di espansione audiovisiva.

 

Il volume 576 - 577 di «Bianco e Nero» si conclude con rubrica Laltra serialità, a cura di Ce.R.T.A (Centro di ricerca sulla televisione e gli audiovisivi dell’Università Cattolica di Milano), dedicata in questo numero alla serie tv britannica Downtown Abbey. L’articolo, dal titolo Molto british quindi global, di Cecilia Penati si concentra sui fattori che hanno reso così celebre la serie e tesse un elogio della serialità britannica, secondo l’autrice non inferiore a quella americana.

 

 

di Diego Battistini


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