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Theatre Research International
in association with the International Federation for Theatre Research

vol. 38, n. 1, March 2013, pp. 81, £ 59
ISSN 0307-8833

 

L’ultimo numero di «Theatre Research International» si apre con l’editoriale di Charlotte Canning dell’University of Texas. La neoeletta Senior Editor rende merito al lavoro svolto da Elaine Aston, durante il suo impegno triennale a conduzione della rivista e presenta il nuovo Associate Editor, Paul Rae della National University of Singapore. L’eredità di un periodico divenuto punto di riferimento trans-nazionale per gli studiosi viene quindi accolta dalla nuova direttrice con il proposito di continuare ad indagare come il teatro unisca le nazioni al di là dei confini materiali, politici, sociali e teorici. Tutti e quattro articoli cercano di rispondere a questa missione.

 

The Possibility of Darkness: Blackout and Shadow in Chris Goode’s “Who You Are” di Martin Welton affronta la tematica della luce e del suo contrario, il buio, nel teatro occidentale contemporaneo. Se per secoli gli spettatori si sono seduti al buio di fronte ad un palco illuminato, Martin Welton si chiede quali emozioni possa invece provocare una rappresentazione nell’oscurità. Cosa può succedere in una situazione teatrale dove l’occhio è incapace di vedere? Questa messa in scena può essere utile per una ridefinizione delle identità di pubblico e attore? L’indagine dell’autore prende spunto da Who You Are di Chris Goode, una performance inserita all’interno dell’installazione How It Is, curata da Miroslaw Balka presso il Tate Modern di Londra nel marzo 2010. Nel buio, la distanza tra chi fa teatro e chi lo riceve è annullata e lo spettatore si trova costretto in un limbo in cui non può capire, attraverso la vista, ciò che sta succedendo. Il teatro, troppo spesso considerato solo come “qualcosa da vedere” diventa così un vero e proprio evento. L’audience, privata dell’elemento basico e rassicurante della luce, inizia infatti a creare nella mente possibili visioni contigue fino a che, sostiene Welton, l’attenzione dell’occhio non tornerà indietro a indagare dentro di sé: «who you are» e «who we are».

 

L’articolo successivo analizza la forma spettacolare del flash mob. Katrin Sieg descrive Glow del duo afro-norvegese Madcon, svoltosi ad Oslo durante l’Eurovision Song Contest del  2010. Il tema della performance è «unity and diversity» e si collega al recente incremento dell’immigrazione in Norvegia. La coreografia della danza è modellata sul meccanismo dei Wii dance games: ballerini bianchi e di colore interagiscono tra loro come degli avatars. L’autrice intende sottolineare da una parte come il web, i video giochi e i social-networks influenzino i rapporti  tra le persone, dall’altra ricorda come nell’ultima decade i Paesi più o meno coinvolti nel colonialismo abbiano incrementato gli studi sulla propria responsabilità, diretta o indiretta. Tra gli altri artisti o gruppi impegnati su questo fronte vengono citati anche Jeanette Ehlers, artista afro-danese, autrice di foto e video tra cui Black magic at the White House (2002) e le Queendom, un gruppo di donne afro-norvegesi impegnate nella lotta satirica alla visione eurocentrica del mondo.

 

Sandra d’Urso prende in considerazione la messa in scena al Théâtre de la Ville di Parigi nell’ottobre 2011 di On the Concept of the Face of Christ di Romeo Castellucci. La rappresentazione ha per tema il disfacimento fisico di un padre e per sfondo l’immagine del volto di Cristo (il Salvator mundi di Antonello da Messina). Il fatto che pubblico e icona debbano condividere (visivamente e olfattivamente) il problema di dissenteria di questo padre, ha suscitato le proteste delle associazioni cristiane più conservatrici le quali hanno accusato il regista di blasfemia. Durante la rappresentazione francese un gruppo di contestatori è arrivato fino al palco, determinando l’intervento della polizia. L’episodio ha dato modo all’autrice di riflettere sul teatro come spazio pubblico in cui il giudizio e il dissenso dovrebbero poter essere contemplati. Nel caso dello spettacolo di Castellucci invece questi due punti di vista sono accecati. Le associazioni cristiane non accettano un eventuale altro significato che può essere dato all’immagine di Cristo e quindi intervengono in sua difesa. Gli altri spettatori non possono esprimere apprezzamento o  disapprovazione in modo consueto, a fine spettacolo, perché le proteste lo bloccano. La situazione non si risolve se non con l’intervento della polizia. L’autrice ritiene quindi che in questi casi il teatro, sede pubblica di cultura, di idee condivisibili o meno, finisce per diventare luogo di inquietudine civile e in quanto tale, provoca l’intervento dello Stato.

 

L’ultimo contributo esamina la performance The Maganiyar Seduction di Roysten Abel. Per la prima volta in scena nel 2006 per celebrare il Delhi Film Festival, la messa in scena unisce l’Indian folk music ad una scenografia di «magic boxes» dove sono seduti degli artisti indiani. Questo set evoca l’atmosfera del quartiere a luci rosse di Amsterdam e provoca nello spettatore una sensazione di «exotic» in quanto ciò che vede risulta ai suoi occhi come inclassificabile e «unusual». Il termine manganiyar significa letteralmente «one who begs» (trad. chi chiede l’elemosina), ma col tempo ha perso questa connotazione originaria per indicare i compositori la cui musica trasmette memoria culturale. Tuttavia il paradosso finale è che i musicisti, diretti da Daevokhan (figura simile al direttore d’orchestra dell’Opera), diventano vittime di una strategia spettacolare che propone solo una rappresentazione di consumo e di «cultural commodity».

 

A conclusione della rivista, le recensioni delle pubblicazioni inglesi di argomento teatrale.

 

 

di Caterina Nencetti


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