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Giulia Tellini

Storie di Medea


Firenze, Le Lettere, 2012, pp. 306, euro 20
ISBN 978 88 6087527 3
                                 

Giulia Tellini dà al suo libro sulle Storie di Medea un taglio certamente originale, che può risultare stimolante tanto per gli studiosi del teatro quanto per quelli di letteratura. Il lavoro, strutturato in due parti, distingue tra il processo di elaborazione della tragedia di Medea da parte di tre grandi attrici, e i rimaneggiamenti del mitema nelle diverse epoche storiche ad opera della produzione letteraria, non solo drammatica.

 

Le tre attrici in questione sono Giacinta Pezzana, Maria Melato e Sarah Ferrati: prima di tutto tre donne, che guardano al personaggio in questione come a una vera e propria antenata di sangue. Quanto alla prima, l’autrice ne ripercorre le interpretazioni della Medea in continuo confronto con la monumentale Adelaide Ristori, prima attrice ad incarnare la protagonista del testo-adattamento di Legouvé (nell’aprile 1856, mentre del 1884 è il debutto della Pezzana in tale parte). Dallo studio, condotto prevalentemente sulla base di recensioni apparse su riviste o quotidiani del tempo, esce un ritratto che attraversa i decenni centrali dell’attività artistica della Pezzana, e che ben ci restituisce l’immagine di quella che Laura Mariani ha chiamato efficacemente «artista del cuore». Il suo nome, meno noto di quelli altisonanti della Marchesa del Grillo o di Eleonora Duse, si pone a pieno titolo nello spazio sottile tra le due, a cui la accomunano da un lato le sfumature neoclassiche degli esordi, dall’altro un’empatia piena e viva col personaggio.

 

Maria Melato, attrice altrettanto sanguigna della Pezzana, sceglie, per portare in scena la sua eroina tragica, il testo di Henri-René Lenormand, ispirato alle vicende di Medea, Asie, che lei stessa traduce e adatta alle scene col più popolare titolo euripideo (prima rappresentazione nella primavera del 1931). In questo caso la possibilità di consultare il copione dello spettacolo permette a Giulia Tellini di considerare il lavoro dell’attrice da un punto di vista non solamente interpretativo, e di certo con maggior vigore filologico. L’operazione che la Melato fa sul testo francese risulta un vero e proprio tradimento: un gusto del tutto personale la induce ad assecondare all’estremo il motivo, minore nell’originale, della gelosia, a discapito delle più evidenti componenti politico-sociali che animano l’opera lenormandiana. Dal punto di vista della recitazione l’attrice ricalca in scena l’azione fatta sul testo, gettandosi anima e corpo negli esclamativi di una passione vorace e mortifera che la allontanano da Euripide più di quanto la scelta del titolo non voglia far credere; laddove lo spirito originario della tragedia non sta nella perdita dell’amante, ma prima ancora nello smarrimento di un qualche sé, che in Lenormand si sdoppia e si riflette di volta in volta nella patria, nel sangue del proprio sangue, o nella divinità.

 

La terza diva, anche in ordine cronologico, su cui l’autrice di questo libro misura il personaggio della famosa “maga”, è Sarah Ferrati. Di lei sono ripensate qui tre interpretazioni: la prima è quella dell’estate 1949, il testo è l’originale euripideo su traduzione di Ettore Romagnoli, la regia di Guido Salvini; la seconda è diretta da Luchino Visconti nel 1953, su traduzione di Manara Valgimigli; la terza, pensata per la televisione, porta la firma della stessa attrice. L’esame di questa edizione (1957) chiarisce bene quale fosse l’ideale Medea della Ferrati: ciò che più sorprende è scoprire quanto, sebbene Euripide rappresenti certamente per lei il faro cui far affidamento, la prima donna avversa ai registi fosse grata al lavoro di “taglia e cuci” di Visconti.

 

Se le cronache contemporanee rappresentano la fonte primaria per la ricostruzione delle relazioni tra le attrici e l’eroina tragica, la seconda metà del libro contiene una ricca ricognizione sui testi, le riprese, gli adattamenti che hanno in Medea la propria protagonista o che ella ispira per le sue qualità di figura paradigmatica. Attraversando coraggiosamente duemilaquattrocento anni di storia della letteratura mondiale, l’autrice non si risparmia nel ricercare le tracce della sua femme mortelle, indugiando con vivace spirito comparativo sul modo in cui le differenti epoche storiche, talvolta prima ancora degli autori, la ri-generano.

 

Medea, fotografata in momenti diversi della sua lunga, tortuosa e multiforme vita (dall’arrivo di Giasone ad Argo fino alla fuga verso Atene), è così «un’intellettuale extracomunitaria» malvista dalla società» per Euripide, una donna «sconquassata dall’ira» per Seneca o il simbolo dei «catastrofici effetti delle passioni» per Blossio Emilio Draconzio. Curiose le riprese, soprattutto dai riscoperti Euripide e Seneca, alla metà del Cinquecento, quando le immagini di una Medea sempre più succube della furia si rincorrono fino a prevedere, nell’omonima tragedia di Maffeo Galladei, il suicidio della protagonista. Similmente si passano in rassegna i classici spagnoli e francesi dell’epoca moderna, si attraversano l’Italia e l’Austria – con la trilogia del Vello d’oro di Franz Grillparzer – per giungere fino all’Inghilterra di James Robinson Planché e Robert Brough (solo per citare due nomi). Qui, a partire dalla metà del secolo XIX, il personaggio di Medea viene caricato di un ruolo politico e sociale senza precedenti, divenendo in breve tempo l’emblema della battaglia per la legge sul divorzio, e ispirando tutta l’onda letteraria che fino agli anni Venti del Novecento sosterrà la lotta per il suffragio femminile. È questa la prospettiva da cui la letteratura del XX secolo guarderà a tutta la tragedia antica: negli anni che portano le guerre nelle città e che vedono il popolo impossessarsi davvero della politica, una tragedia concepita già da Euripide come strumento di denuncia sociale si presta a continue rivitalizzazioni. Tra i nomi non ancora citati, si ricordano almeno quello di Catulle Mendès, di Hans Henny Jahnn, di Anouilh, di Corrado Alvaro (alla cui Lunga notte di Medea l’autrice dedica uno spazio privilegiato), di Pier Paolo Pasolini, di Heiner Müller, di Christa Wolf.

 

Anche oggi Medea sopravvive, forse anche in virtù delle trasformazioni subite nei secoli. Sopravvive soprattutto intatta alle mutilazioni che il teatro e il cinema degli ultimi venti, trent’anni hanno apportato alla sua storia di donna emigrata, abbandonata, vendicativa, infanticida. Rimane una donna che ha il volto della Liberté guidant le peuple, imbraccia un fucile e ha sulla bandiera lo stemma di nonno Elio.



di Lorenzo Galletti


La copertina

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