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«Duellanti», a. X, n. 75, febbraio 2012


«Duellanti», a. X, n. 75, febbraio 2012, 120 pp., € 6,00
ISSN 1724-3580

La bandiera degli Stati Uniti d’America fa mostra di sé sulla copertina del nuovo numero di «Duellanti», sedotto questo mese dal “furore” – come descritto dal consueto sottotitolo - del suo cinema. Si può infatti affermare che l’attenzione della rivista si concerta perlopiù sulle produzioni nord americane viste sui grandi schermi negli ultimi mesi. Attraverso l’analisi approfondita del film J. Edgar firmato da Clint Eastwood, Carlo Chatrian dà inizio a un’interessante riflessione sulla rappresentazione del potere nel cinema americano contemporaneo. Secondo il critico, l’opera di Eastwood si pone come ennesimo capitolo di una personale battaglia contro l’apparenza, riuscendo però a rendere toccante un personaggio sgradevole come Hoover e a elevare una vicenda intima a parabola di un intero paese. Mettendolo a confronto con Invictus – L’invincibile (2009), Chatrian approfondisce il complesso rapporto che si è instaurato tra il personaggio e il suo autore. «L’Hoover di Eastwood è un uomo imprigionato in un corpo pubblico che non può non comportarsi secondo le regole. Dietro la pesantezza del trucco che ne paralizza le espressioni, sembra di vedere il direttore dell’FBI lottare contro se stesso, contro la ferrea disciplina che lo ha formato, lo ha elevato al rango di potente e gli ha consentito di vincere le sue debolezze». Federico Pedroni prosegue l’analisi del lungometraggio nelle pagine successive, accusando il cineasta di aver mostrato una sottile reticenza nel trattare l’omosessualità e «una grossolana analisi psicologica». Per il redattore, l’unico aspetto rilevante del fim sta nel ritratto che il regista riesce a conferire al direttore del Bureau, «uomo feroce, ma consapevole delle mutazioni della modernità». Hoover appare come l’incarnazione stessa del potere americano, cosciente del ruolo che messa in scena e rappresentazione ricoprono nella sua gestione. Secondo Ivan Moliterni il J. Edgar di Eastwood non appare semplicemente come una rilettura del mito o il dialogo tra epoche lontane: il regista propone un bilancio perfezionato di continuo rimontaggio di volti ed eventi che mostrano una Storia sanguinaria, scandita dall’odio nei confronti dell’altro. Franco Marineo propone al lettore un parallelismo tra l’opera di Eastwood e l’ultimo film diretto e interpretato da George Clooney, Le idi di Marzo. Secondo il critico entrambi appaiono come esempi di un cinema politico «tutt’altro che rassicurante». Clooney, divo-regista, riesce a fare in modo che le apparenze scoloriscano inesorabilmente, minuto dopo minuto, dialogo dopo dialogo, trasformando il film nell’autopsia di uno specifico risvolto del sogno americano, quello legato alla rispondenza tra le parole pronunciate e le azioni compiute, tra i principi perseguiti e i compromessi ingoiati. Il redattore individua alcune discrepanze tra i due registi, concentrandosi più sul contenuto che sulla forma. «Se Clooney dimostra di nutrire ancora fiducia in un cinema ostinatamente politico e intesse una ragnatela di relazioni che alla fine somigliano a una tragedia volta a svelare come la violenza sia pervasiva e contagiosa, Eastwood, che forse ha sempre inteso in maniera diversa l’uso politico del cinema, resta più ancorato a una singola fiugura tragica che funziona da epicentro per un’intera storia».

Marco Toscano prosegue il confronto tra il film diretto da Clooney e l’opera di Eastwood, sostenendo come per emergere un personaggio debba nascondersi: con protagonisti sospesi tra luce dei riflettori e lavoro nell’ombra, immagine pubblica e segreti invisibili, «J. Edgar e Le idi di marzo mettono in scena una sparizione alla rovescia». Dalla riflessione cinematografica sul potere e l’intrigo nella produzione americana contemporanea si passa alla messinscena di una delle spy story più celebri del romanziere John Le Carré. Nella sezione “Incontriepercorsi”, «Duellanti» dedica infatti alcune pagine a La talpa diretto da Tomas Alfredson, che si è dovuto misurare con il successo della miniserie del 1979 portata sul piccolo schermo da John Irvin, in cui Alec Guinness vestiva i panni di Goeorge Smiley. Secondo Pedroni, il regista svedese ha affrontato la materia con uno spirito intimista, creando una sorta di vintage rovesciato: «la ricostruzione formale degli anni Settanta è livida, i personaggi si muovono tra corridoi e stanze fumose, la polvere si accumula sui mobili, le squallide tappezzerie sembrano essere sul punto di scrostarsi». Per il critico, questo film mostra la palese intenzione di allontanarsi dalla storia di spionaggio tradizionale: Alfredson infatti si occupa più dei dettagli, della ricognizione emotiva di uomini traditi e pronti a tradire, che dei molteplici strati della trama. «La sottile linea melodrammatica che scorre sotto l’impassibilità di agenti segreti non trova sbocchi, il cedimento dei personaggi è completamente interiorizzato, la nostalgia viene narcotizzata dalla patina fumosa di stanze sempre uguali, sempre più cadenti. Il nemico, la spia, è dentro ognuno di loro». Per Rocco Moccagatta il mondo rappresentato da Alfredson si mostra a tutti gli effetti come un sistema rigidamente maschile, «quasi un monastero laico in cui l’amicizia virile/l’attrazione omoerotica è l’unica fonte di emozione e vitalità per pedine svuotate e imprigionate nel loro ruolo». Dopo un breve accenno al discusso Shame diretto dal videoartista inglese Steve McQueen, Marzia Gandolfi intervista Michel Hazanavicius, regista di The Artist, trionfatore a Cannes 2011 con la vittoria della Palma d’Oro e agli Oscar 2012, grazie all’imprevedibile conquista di cinque statuette, tra cui Miglior Film e Miglior Regia. Per Moliterni il film ha il pregio di mescolare vecchio e nuovo, affiancare citazioni cinefile a trovate brillanti, restituendo alle immagine una forza simbolica e comunicativa che permette di riflettere sui meccanismi divistici e sull’esperienza spettatoriale nel passaggio dal muto al sonoro. Il critico prosegue affermando: «spesso il postmoderno si riallaccia alle forme e agli apparati delle origini con l’obiettivo di inglobare un sapere tecnico-teorico e di concettualizzare i meccanismi. Lo hanno fatto le avanguardie e lo fa ciò che ama definirsi sperimentale per segnare una fase al contempo circolare e di rottura».

L’interesse della rivista si sposta nuovamente sulla produzione americana, con una vera e propria apologia del “maestro” Woody Allen e della sua filmografia. Pezzotta, che confessa apertamente il suo amore per il prolifico autore, sostiene che la morale della fiaba di Midnight in Paris sta nel sano relativismo: «ciò che non abbiamo mai vissuto e per cui nutriamo nostalgia è stato il presente di qualcun altro, così come il grigio che oggi abitiamo sarà un giorno il vintage di qualcun altro». Matteo Columbo chiude lo spazio dedicato ad Allen ricordando come la città di Parigi abbia esercitato uno straordinario fascino per i narratori americani, così come per i registi hollywoodiani. Nonostante la diversità di generi, la mythologie parigina resta una fiamma forte e viva nel buio della sala. Inoltre, ciò che appare più interessante agli occhi del giornalista è la messinscena del gioco di moltiplicazione delle belle epoche possibili, che ci ammonisce a relativizzare ogni illusione assoluta.

Per il mese di febbraio la rubrica “Portfolio”, solitamente di argomento non cinematografico, dedica il suo intero spazio alla mostra Pixar – 25 anni di animazione, tenutasi al Pac di Milano. L’esposizione ha carattere itinerante e mostra ai visitatori tutte le fasi di un processo creativo unico e sempre collettivo, in cui le tecniche di animazione più tradizionali sono l’imprescindibile base di prodotti che definiscono nuovi standard tecnologici.

Nella sezione New Media «Duellanti» continua il percorso analitico dell’opera di Marshall McLuhan, proponendo al lettore la seconda parte di un saggio sulle profetiche previsioni dello studioso candese.

Dopo tanta attenzione nei confronti del cinema americano, la rivista dedica un piccolo approfondimento sull’uscita in dvd di Roma città aperta e Paisà, valido “pretesto” per riflettere ancora una volta su capolavori assoluti del cinema italiano e sull’unicità dello sguardo di Roberto Rossellini.


di Francesca Valeriani


La copertina

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