Il
protagonista assoluto del nuovo numero di «Duellanti» non poteva che essere
lultimo film di Terrence Malick, The Tree of Life. I redattori della rivista dedicano lintera
sezione “radiografie” al capolavoro del regista americano, tornato dietro alla
macchina da presa dopo The New World.
Seguendo un criterio di disomogeneità, la rivista propone al lettore differenti
spunti critici, alternando i giudizi positivi a quelli negativi. Alberto
Pezzotta tende a sottolineare il cambiamento mostrato dellautore, considerando
le sue scelte linguistiche come «un aggiornamento della macchina a mano degli
anni Settanta», che punta ad abbandonare quello che Pezzotta definisce “stile
classico” in favore di uno sguardo più contemporaneo. Il giornalista prosegue
la sua analisi affermando come Malick dimostri di essere più un poeta che un
creatore di forme, «un manierista che arranca di fronte al sublime, e quando
osserva il caos della materia e della natura non ha un briciolo del genio
visionario di un Herzog o di un Sokurov». Nel suo ampio intervento, Roy
Menarini descrive le reazioni della critica di fronte al film del regista
texano: «vi è chi ha ammirato e amato la sfrenata ambizione di Malick, tornare
a proporre una cosmologia del cinema al tempo di Avatar, e chi lo ha detestato e persino deriso per questa stessa
ambizione alla totalità, per la brama di contenere macroscopico e microscopico,
che mette a dura prova lo spettatore contemporaneo e mostra il regista come un
senile cocciuto difensore dellautorialismo “assoluto”». Secondo Menarini, il
regista riesce a dare limpressione di aver creato una porzione di realtà e di
averne saggiato gli aspetti generali e particolari, esplorandola con la stessa
imprevedibilità di chi la abita nella finzione. Il critico intende sviluppare
quelle che sono state considerate come le analogie e le distanze esistenti tra The Tree of Life e Avatar, dove leclettica rappresentazione di Pandora proposta da James Cameron denuncia una disinvolta
fusione tra naturalismo e animismo. Nella pellicola di Cameron «ci viene detto
letteralmente col 3D e attraverso gli avatars
che abbiamo bisogno di nuovi mezzi oculari per reimmergerci in una realtà ormai
medializzata e a noi sottratta». In The
Tree of Life accade il contrario: il cinema non ha bisogno altro che di una
macchina da presa e di una casa con un giardino in Texas; se vogliamo mettere
in scena un new world ecco che
luniverso si rigenera davanti ai nostri occhi tramite pure forme chimiche e
materiali. Allopposto di quanto affermato da Pezzotta, Franco Marineo
sottolinea come la visione Malick nei confronti della natura si confermi essere
leopardiana: essa relega luomo a una stupefatta impotenza. Se Giovanni
Chiaramonte considera lultimo film di Malick come «un ritratto dellinfanzia
geniale e toccante», Ivan Moliterni rintraccia in The Tree of Life quelle che possono essere considerate come le
riflessioni cardine dellopera del regista: la rappresentazione della metamorfosi
e della rinascita. Il numero di luglio prosegue con lanalisi di Venere Nera. Luca Barnabé intervista il
regista Abdelliatif Kechiche,
ponendo particolare attenzione sul ruolo dello spettatore contemporaneo: «allepoca
in cui si svolge la storia, vi era una possibilità di spettacolo molto
limitata, per cui era difficile una educazione allo sguardo». Per la messa in
scena della vicenda che vede come protagonista la khoikhoi Saaertjie Baartman,
lautore racconta di essersi a lungo documentato, prendendo spunto da ogni
tipologia di fonte: la ricerca di documenti giudiziari si è così svolta di pari
passo alla ricerca di documenti iconografici, imprescindibili per la
realizzazione di una pellicola di carattere storico. Sfogliando le pagine
dedicate al film, si nota che i redattori della rivista appaiono concordi nel
rilevare come Kechiche applichi uno stile rigoroso a un materiale perturbante,
rifiutando lo psicologismo, che secondo il regista «limita la comprensione
dellessere umano. Limmagine, da sola, ne rileva molte più sfumature di tutti
i tentativi di spiegazione psicologica». Sempre nella sezione
“incontriepercorsi” Maria Buratti prende in analisi Il ragazzo con la bicicletta di Jean-Pierre e Luc Dardenne, vincitori del prestigioso Premio della
Giuria allo scorso Festival di Cannes. La giornalista tende a delineare i
tratti riconoscibili dello stile dei due registi. Approccio documentaristico,
macchina a mano, movimenti lunghi e sporchi, montaggio che interrompe
bruscamente lazione: secondo la Buratti sono il risultato di un inconfondibile
e preciso atteggiamento verso il reale, uno sguardo dal basso, rispettoso e
partecipe, che osserva condizioni problematiche e vite difficili, stando
accanto alle persone, spiandone i volti segnati e abitando i luoghi. Diversamente
da quanto si è abituati a vedere e leggere, la sezione “immaginemondo” proposta
in questo numero appare particolarmente omogenea: partendo da Aki Kaurismäki fino ad arrivare a Lars von Trier, «Duellanti» si occupa
in modo approfondito del 64° Festival di Cannes. Se Luciano Barisone sviluppa
un interessante confronto tra Le Havre
e Hanezu no Tsuki di Naomi Kawase, Barnabé riscontra un
certo sentimento nostalgico che accomuna le opere presentate sulla Croisette,
come Midnight in Paris di Woody Allen e This Must Be the Place di Paolo
Sorrentino. Secondo il critico, leffetto nostalgico, catturato da uno
sguardo postmoderno, permette un dialogo tra epoche diverse, portando avanti la
riflessione sul ruolo della memoria e della copia. Lo spazio dedicato al
Festival si conclude con lintervento di Carlo Chatrian che critica le scelte
compiute dai direttori artistici della kermesse francese: «anno dopo anno il
Festival sembra proporre un paesaggio sempre più individualizzato, in cui le
opere non dialogano tra loro, finendo così per privilegiare lautore-brand e
dunque accettando la mercificazione del cinema». Dopo lintervista di Umberto
Mosca al regista Daniele Gaglianone
a proposito del suo nuovo lavoro dal titolo Ruggine,
rimane da segnalare la pubblicazione di uno stralcio di Se dico radici dico storie, libro scritto da Gian Luca Favetto,
edito da Laterza. Affascinato dalluniverso creato da James Cameron come dai capolavori di John Ford, Favetto suggerisce al lettore una serie di collegamenti
solo in apparenza inconcepibili: Jules e
Jim (F. Truffaut, 1962), Fritzacarraldo (W. Herzog, 1982) e Full Metal
Jacket (S. Kubrick, 1987) abitano
la stessa dimensione, quella dello spettatore appassionato e instancabile. Le
parole di Favetto altro non rappresentano che una manifesta dichiarazione damore
nei confronti della Settimana Arte: «quando siedo al cinema mi sembra di essere
in uno dei posti più belli del mondo. Provo un piacere che non ha eguali. Su
quella poltrona, in quella penombra che si accosta al buio, mentre il brusio
del pubblico si acquieta, tutto il resto tace: i pensieri, gli affanni, il
quotidiano… e comincia laltro, lavventura».
di Francesca Valeriani
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