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Duellanti, a. IX, n. 71, Luglio 2011


Duellanti, anno IX, n. 71 luglio 2011 € 6.00, pp. 120
ISSN 1724-3580

Il protagonista assoluto del nuovo numero di «Duellanti» non poteva che essere l’ultimo film di Terrence Malick, The Tree of Life.  I redattori della rivista dedicano l’intera sezione “radiografie” al capolavoro del regista americano, tornato dietro alla macchina da presa dopo The New World. Seguendo un criterio di disomogeneità, la rivista propone al lettore differenti spunti critici, alternando i giudizi positivi a quelli negativi. 

Alberto Pezzotta tende a sottolineare il cambiamento mostrato dell’autore, considerando le sue scelte linguistiche come «un aggiornamento della macchina a mano degli anni Settanta», che punta ad abbandonare quello che Pezzotta definisce “stile classico” in favore di uno sguardo più contemporaneo. Il giornalista prosegue la sua analisi affermando come Malick dimostri di essere più un poeta che un creatore di forme, «un manierista che arranca di fronte al sublime, e quando osserva il caos della materia e della natura non ha un briciolo del genio visionario di un Herzog o di un Sokurov».

Nel suo ampio intervento, Roy Menarini descrive le reazioni della critica di fronte al film del regista texano: «vi è chi ha ammirato e amato la sfrenata ambizione di Malick, tornare a proporre una cosmologia del cinema al tempo di Avatar, e chi lo ha detestato e persino deriso per questa stessa ambizione alla totalità, per la brama di contenere macroscopico e microscopico, che mette a dura prova lo spettatore contemporaneo e mostra il regista come un senile cocciuto difensore dell’autorialismo “assoluto”». Secondo Menarini, il regista riesce a dare l’impressione di aver creato una porzione di realtà e di averne saggiato gli aspetti generali e particolari, esplorandola con la stessa imprevedibilità di chi la abita nella finzione. Il critico intende sviluppare quelle che sono state considerate come le analogie e le distanze esistenti tra The Tree of Life e Avatar, dove l’eclettica rappresentazione di Pandora proposta da James Cameron denuncia una disinvolta fusione tra naturalismo e animismo. Nella pellicola di Cameron «ci viene detto letteralmente col 3D e attraverso gli avatars che abbiamo bisogno di nuovi mezzi oculari per reimmergerci in una realtà ormai medializzata e a noi sottratta». In The Tree of Life accade il contrario: il cinema non ha bisogno altro che di una macchina da presa e di una casa con un giardino in Texas; se vogliamo mettere in scena un new world ecco che l’universo si rigenera davanti ai nostri occhi tramite pure forme chimiche e materiali. 

All’opposto di quanto affermato da Pezzotta, Franco Marineo sottolinea come la visione Malick nei confronti della natura si confermi essere leopardiana: essa relega l’uomo a una stupefatta impotenza. Se Giovanni Chiaramonte considera l’ultimo film di Malick come «un ritratto dell’infanzia geniale e toccante», Ivan Moliterni rintraccia in The Tree of Life quelle che possono essere considerate come le riflessioni cardine dell’opera del regista: la rappresentazione della metamorfosi e della rinascita. Il numero di luglio prosegue con l’analisi di Venere Nera

Luca Barnabé intervista il regista Abdelliatif Kechiche, ponendo particolare attenzione sul ruolo dello spettatore contemporaneo: «all’epoca in cui si svolge la storia, vi era una possibilità di spettacolo molto limitata, per cui era difficile una educazione allo sguardo». Per la messa in scena della vicenda che vede come protagonista la khoikhoi Saaertjie Baartman, l’autore racconta di essersi a lungo documentato, prendendo spunto da ogni tipologia di fonte: la ricerca di documenti giudiziari si è così svolta di pari passo alla ricerca di documenti iconografici, imprescindibili per la realizzazione di una pellicola di carattere storico. Sfogliando le pagine dedicate al film, si nota che i redattori della rivista appaiono concordi nel rilevare come Kechiche applichi uno stile rigoroso a un materiale perturbante, rifiutando lo psicologismo, che secondo il regista «limita la comprensione dell’essere umano. L’immagine, da sola, ne rileva molte più sfumature di tutti i tentativi di spiegazione psicologica». 

Sempre nella sezione “incontriepercorsi” Maria Buratti prende in analisi Il ragazzo con la bicicletta di Jean-Pierre e Luc Dardenne, vincitori del prestigioso Premio della Giuria allo scorso Festival di Cannes. La giornalista tende a delineare i tratti riconoscibili dello stile dei due registi. Approccio documentaristico, macchina a mano, movimenti lunghi e sporchi, montaggio che interrompe bruscamente l’azione: secondo la Buratti sono il risultato di un inconfondibile e preciso atteggiamento verso il reale, uno sguardo dal basso, rispettoso e partecipe, che osserva condizioni problematiche e vite difficili, stando accanto alle persone, spiandone i volti segnati e abitando i luoghi. 

Diversamente da quanto si è abituati a vedere e leggere, la sezione “immaginemondo” proposta in questo numero appare particolarmente omogenea: partendo da Aki Kaurismäki fino ad arrivare a Lars von Trier, «Duellanti» si occupa in modo approfondito del 64° Festival di Cannes. Se Luciano Barisone sviluppa un interessante confronto tra Le Havre e Hanezu no Tsuki di Naomi Kawase, Barnabé riscontra un certo sentimento nostalgico che accomuna le opere presentate sulla Croisette, come Midnight in Paris di Woody Allen e This Must Be the Place di Paolo Sorrentino. Secondo il critico, l’effetto nostalgico, catturato da uno sguardo postmoderno, permette un dialogo tra epoche diverse, portando avanti la riflessione sul ruolo della memoria e della copia. Lo spazio dedicato al Festival si conclude con l’intervento di Carlo Chatrian che critica le scelte compiute dai direttori artistici della kermesse francese: «anno dopo anno il Festival sembra proporre un paesaggio sempre più individualizzato, in cui le opere non dialogano tra loro, finendo così per privilegiare l’autore-brand e dunque accettando la mercificazione del cinema». 

Dopo l’intervista di Umberto Mosca al regista Daniele Gaglianone a proposito del suo nuovo lavoro dal titolo Ruggine, rimane da segnalare la pubblicazione di uno stralcio di Se dico radici dico storie, libro scritto da Gian Luca Favetto, edito da Laterza. Affascinato dall’universo creato da James Cameron come dai capolavori di John Ford, Favetto suggerisce al lettore una serie di collegamenti solo in apparenza inconcepibili: Jules e Jim (F. Truffaut, 1962), Fritzacarraldo (W. Herzog, 1982) e Full Metal Jacket (S. Kubrick, 1987) abitano la stessa dimensione, quella dello spettatore appassionato e instancabile. Le parole di Favetto altro non rappresentano che una manifesta dichiarazione d’amore nei confronti della Settimana Arte: «quando siedo al cinema mi sembra di essere in uno dei posti più belli del mondo. Provo un piacere che non ha eguali. Su quella poltrona, in quella penombra che si accosta al buio, mentre il brusio del pubblico si acquieta, tutto il resto tace: i pensieri, gli affanni, il quotidiano… e comincia l’altro, l’avventura». 



di Francesca Valeriani


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