Come di consueto, il nuovo numero di «Duellanti» si apre con lampia sezione “radiografie”, questo ottobre dedicata interamente al film vincitore della Palma dOro al 63° Festival di Cannes, Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti. Paolo Bertolin intervista il regista thailandese, Apichatpong Weerasethakul, ponendo lattenzione sulle analogie con le sue opere precedenti, in particolare Tropic Malady (2004) e Syndromes and a Century (2006). Weerasethakul afferma di essersi ispirato a un racconto diffuso presso un tempio buddista della Thailandia settentrionale, pubblicato poi negli anni Ottanta, che gli ha consentito di mettere in scena un percorso metafisico di reincarnazioni e di dar corpo al misterioso protagonista, lo zio Boonmee. Lintervistatore sottolinea linconsueta scelta del regista di girare in 16mm, discostandosi così dal contesto produttivo del Sud-Est asiatico, dove il formato digitale è diventato la norma per la realizzazione di pellicole dautore. Secondo Carlo Chatrian, che firma la scheda del film, le opere di Weerasethakul sono frutto di esperienze artistiche che portano il cinema a confrontarsi con altri ambiti: la videoarte, la multimedialità, ma anche la storia e la politica. Nonostante il sottotesto politico risulti fondamentale per comprendere la poetica espressa dal film, il lavoro del regista thailandese non è mai unidirezionale e ancor meno realistico. Per il critico: «il suo campo dindagine è limmaginario», un groviglio di ansie, desideri, pulsioni che dal fuoricampo entra prepotentemente in scena. Nellarticolo successivo, Massimo Causo individua nel cinema di Weerasethakul un incessante dialogo tra presente e passato che «diviene pregnante tanto sul piano della realtà fattuale quanto su quello della realtà immaginaria». Secondo Causo, il regista thailandese celebra il massimo grado di compenetrazione tra lindividuo e il suo ambiente, mettendo in scena una natura sensuale e sensibile, che affascinata tanto lo spettatore quanto lo stesso Weerasethakul. Per Vittorio Iervese, che scrive larticolo conclusivo della sezione, il regista non realizza solo un film, ma edifica giungle e lo fa in termini fisici, sensuali, «cercando di far camminare lo spettatore attraverso la costruzione».
Lo spazio riservato a “incontriepercorsi” questo mese si presenta più eterogeneo del solito. Alessandra Matella intervista Oliver Stone sul suo ultimo lavoro, Wall Street – Il denaro non dorme mai. Il regista newyorkese confida alla sua interlocutrice di non aver mai voluto girare un sequel; nonostante ciò, dopo la crisi di metà decennio che vede come protagonista il collasso non solo di un certo tipo di capitalismo, ma dellintero sistema americano, Stone ha creduto che fosse giunto il momento di riaccendere i riflettori su Gordon Gekko, sulla sua avidità e sui suoi eccessi. Nellintervista il regista ribadisce più volte come in ogni sua opera lapprofondimento psicologico dei protagonisti rappresenti una priorità rispetto alla descrizione dellambiente che li circonda e al contesto storico in cui si trovano a vivere e agire. Lintento di Stone è quello di mostrare al suo pubblico come si siano evoluti il personaggio del broker e linvestitore senza scrupoli dellalta finanza. Massimo Causo, nella scheda successiva, giudica negativamente la pellicola, che «rivela senza remore la povera vanità di questo autore che quanto più vuole dire quanto meno ha da dare». Per il redattore Stone cerca di infondere ritmo e senso a un film nato consumato, retto da una sceneggiatura priva di mordente, costruita su «un personaggio dallumanità ambigua» che ne affloscia il fascino esercitato nel lontano 1987. La Matella intervista anche Luc Besson che racconta la genesi del suo Adèle e lenigma del Faranone, ispirato al fumetto di Jacques Tardi. Per Gianni Perego, il personaggio trasposto dal regista francese intrattiene chiari legami con le varie Mathilda e Nikita, figure femminili sole al mondo, costrette a battersi contro una società violenta e misogina. Tuttavia, per il critico, Adèle rischia di annegare tra effetti speciali e trucchi visivi a causa dellazione eccessivamente fantasmagorica fortemente voluta da Besson.
Dopo un breve spazio dedicato a I mercenari – The Expendables di Sylvester Stallone e a The Town di Ben Affleck, Betty Bonomo e Mario Serenellini ricordano il disegnatore Charles M. Schulz e le sue ventimila strisce disegnate nellarco di cinquantanni. I celebri Peanuts rappresentano «un lungo film quotidiano di amore mancato, una serie infinita di rifiuti e frustrazioni, uneterna sequenza dolcemente immutabile di football ciccati, concerti mai dati, palle perse, romanzi non scritti, amori impigliati nellinfanzia e perciò mai consumati». Nelle strips di Schulz «le schegge di storia privata diventano immediatamente universali, immodificabili e sempre nuove, come i classici, come i lirici greci, perché dettate dal cuore di un poeta».
Kyle Buchanan torna a occuparsi di Brest Easton Ellis, controverso scrittore statunitense le cui opere sono state trasposte in film, alternando successi commerciali e deludenti flop. Il critico americano ripercorre cronologicamente il percorso discontinuo individuabile nel rapporto tra lo scrittore e luniverso hollywoodiano partendo da Le regole dellattrazione (Robert Avary, 1987) fino ad arrivare alla sceneggiatura di The Golden Suicides, diretto da Gus Van Sant, che uscirà nel 2011.
Lo speciale di questo numero è interamente dedicato alla 67° Mostra dArte Cinematografica del Cinema di Venezia. Carlo Chatrian intervista Gianfranco Rosi, regista de El sicario – Room 164, presentato nella sezione Orizzonti. Rosi racconta la storia di un killer al soldo di trafficanti di droga messicani optando per poche ma significative scelte registiche: la struttura del documentario è stata ideata dallo stesso sicario, che ha diviso la narrazione in blocchi che permettono di individuare i temi a lui più cari, come la famiglia, il lavoro, la religione. Ambientata intermante in una stanza dalbergo, la stessa dove il killer ha torturato e ucciso migliaia di uomini insieme alla sua organizzazione criminale, lopera di Rosi riesce a catturare lincondizionata attenzione dello spettatore senza mostrare esplicitamente le drammatiche azioni delluomo, lasciando che il protagonista le evochi di fronte alla macchina da presa, nascondendo il volto con un fazzoletto nero. Attraverso dei veri e propri storyboard disegnati uno dopo laltro su un piccolo quaderno, il sicario spiega con lucidità gli efferati ordini impartiti dalla potente organizzazione di Juárez da cui è riuscito ad allontanarsi.
Anche questo mese lultima pellicola di Christopher Nolan, Inception, cattura lattenzione della rivista «Duellanti». Nella rubrica “scenari” Kristin Thompson e David Bordwell analizzano rispettivamente la caratterizzazione dei personaggi e la struttura narrativa del film: per la Thompson «i personaggi di Inception sono definiti non tanto dalle loro azioni o dai loro dialoghi, quanto dalle loro premesse». Secondo Bordwell lopera del regista americano non esplora tanto la dimensione onirica, quanto «sfrutta lidea stessa della sua esplorazione per giustificare unesperienza narrativa assai complessa». La rappresentazione del sogno diventa quindi «un mero alibi» per la realizzazione di una struttura diegetica «inscatolante», che talvolta rischia di cedere allautocompiacimento.
di Francesca Valeriani
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