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Gianni Poli

Scena francese nel secondo Novecento. II
Antoine Vitez - Patrice Chéreau

Corazzano, Titivillus, 2010, pp. 220, euro 16,00
ISBN 978-88-7218-293-2

Con Scena francese del secondo Novecento II. Antoine Vitez – Patrice Chéreau, Gianni Poli completa il dittico iniziato con il volume del 2007, riuscendo a mantenere inalterata l’eccellenza nella metodologia investigativa. La continuità della ricerca e l’impostazione di fondo del lavoro lega indissolubilmente i due volumi l’uno all’altro, tanto che lo stesso autore in questa Introduzione (in cui tra l’altro spiega il suo punto di vista, in merito al già detto sui due artisti) rimanda a quella precedente «soprattutto per le indicazioni metodologiche rimaste, coerentemente, invariate». L’imponenza della bibliografia di riferimento, che prende in considerazione fonti primarie d’archivio, scritti (inediti e pubblicati) dei due uomini di teatro, loro  interviste, studi critici sia sulla loro opera che sui loro spettacoli, fonti audiovisive e tesi di laurea, continua a porre fondamenta robuste per il corpus del lavoro. D’altra parte, come sottolinea Michel Corvin nella Prefazione, il modus operandi di Poli si pone a metà tra quello umorale – tipico dei giornalisti – e quello erudito, in un approccio che, acquisendo ricchezza da entrambi, riesce pur tuttavia a rimanere scevro da troppo facili entusiasmi e da eccessivi virtuosismi tecnici, senza però minare scrupolosità e perfezionismo.

Scena francese del secondo Novecento II, come il precedente, ha una struttura bipartita e simmetrica, molto funzionale per il lettore e ben articolata in senso logico. Si è introdotti nell’universo di riferimento a ciascun autore attraverso la trattazione dei Temi e problemi collegati – anche in termini di stato dell’arte e contestualizzazione cronologica e concettuale – e delle Coordinate biografiche. A queste due sezioni seguono quella dedicata agli Spettacoli e i Bilanci.

 

Si riportano qui gli estratti delle due sezioni Temi e problemi relative a ciascun autore, seguite dalle Abbreviazioni e guida alla lettura.

 

 

ANTOINE VITEZ

 

IL REGISTA-POETA. NEL CORPO DELLE IDEE

 

 

Cherchez le petit

pour trouver le grand…

A. Mnouchkine, Aux acteurs,

pour ‘Les Ephémères’, 2006.

 

 

1. Temi e problemi.

In una discendenza storica riconoscibile, sempre contraddetta e mai tradita, da Antoine a Copeau e Dullin, da Jouvet e Barrault a Vilar, la civiltà teatrale francese attribuisce ormai ad Antoine Vitez il ruolo di protagonista nella propria tradizione rinnovata. Il prestigio crescente del metteur en scène aveva forse ritardato l’apprezzamento di altre essenziali componenti della sua figura di moderno umanista del teatro: attore, poeta e traduttore; saggista, pedagogo e direttore. La pubblicazione organica e pressoché completa dei suoi Écrits, vere Opere Complete in edizione critica, esaustiva se non integrale[1], consentiva, a breve distanza dalla morte, la prima conoscenza essenziale ed equilibrata della personalità e della sua opera. Ciò è stato possibile anche grazie all’archiviazione dei documenti resi disponibili allo studioso in misura, qualità e tempestività eccezionali [2].

È notevole come nel lavoro di Vitez si accompagni alla creazione scenica una continua riflessione teorica e una sistemazione critica. Così alla memoria visiva ed emotiva delle sue realizzazioni è accostabile il progetto precedente, per una verifica di intenti e risultati. Un certo carattere sistematico è rilevabile in tutta l’opera, comprendente anche versi, saggi e traduzioni. A un dato momento della loro collaborazione, l’autore belga René Kalisky raccomandò al regista di raccogliere i suoi scritti: «Dans tes mises en scène […] ton travail s’avance comme la fête […]. Mais tout ceci il faudrait le dire, l’écrire. Pourquoi ne ferais-tu pas un livre sur le théâtre? Ce serait la fin des malentendus» (Lettre 10 février 1976, «Prospero», 1, 1991, p. 4). Assumono inoltre notevole sostanza le Interviste, alle quali l’artista si è concesso con prodigalità, formulandole con precisione concettuale e formale.

 

Vitez homme de théâtre et écrivain. Du nombre de ceux qui comme lui sont l’un et l’autre, il est le seul à ne pas toucher au théâtre en tant qu’écrivain. […] Vitez homme de raison. Homme de certitudes et de provocation. Les convictions chez lui ne forment pas un socle, elles fusent comme autant de projectiles pour pousser plus loin la connaissance. […] Les contradictions ne le déchirent pas mais l’alimentent – son combustible quotidien [3].  

 

Un linguaggio prossimo più alla fisica e alla fisiologia che al gergo del palcoscenico distingue quello stile: nel suo segno di flagrante immaginazione, il Teatro (come la mente dell’autore) è crogiuolo dell’Analogia, mediante la quale la materia delle idee, precipitata nel corpo dell’attore, dà luogo all’eventuale spettacolo. Rari, ma acuti e puntuali, i saggi francesi sull’autore. Un bilancio a metà carriera, sotto forma di conversazione guidata dal Copfermann, è in De Chaillot à Chaillot (1981, 17-18), da cui risaltano i punti di svolta, come la creazione del Théâtre des Quartiers d’Ivry e la direzione di Chaillot. Un riepilogo di Teatrografia fu redatto nel 1981, seguente al contributo di Raymonde Temkine del 1977. L’analisi della critica sull’attività a Chaillot è fornita nel 1998: «Les chroniques théâtrales au fil des sept saisons passées par Vitez à Chaillot dévoilent bien comment il a pratiqué ‘la représentation critique de la réalitè’» [4]. Anne Ubersfeld produce due monografie, nel 1994 e nel 1998. In Italia, eccettuate le recensioni a singoli spettacoli e l’eco della sua presenza passeggera (in una Mostra romana del 1984; l’allestimento al Piccolo Teatro di Milano del Il Trionfo dell’amore nel 1985), la figura di Antoine Vitez resta purtroppo sconosciuta, specialmente all’ultima generazione. La vicenda dell’edizione italiana dei suoi Scritti, annunciati in Antologia nel 1997-98 e mai pubblicati, aggrava un silenzio durato ormai vent’anni [5].

L’esordio del regista con Électre (1966) è relativamente tardivo rispetto all’interesse per l’arte del teatro che risale agli anni Quaranta. A quell’inclinazione aveva certo contribuito l’ammirazione del padre di Antoine per gli artisti del Cartel. Fotografo di professione, aveva fecondato nel giovane la sensibilità per le immagini e la loro elaborazione. L’arte e la letteratura apparivano in famiglia come acquisizioni ed espressioni disinteressate, la cultura venendo intesa come valore in sé e non come mezzo di promozione sociale. La cifra distintiva del ragazzo è un grande amore, mai venuto meno, per le lettere e la poesia e una straordinaria inclinazione alle lingue. Nel mondo dello spettacolo, a cui s’avvia frequentando scuole di recitazione, cercherà la prima fonte di sostentamento con la pubblicità radiofonica; come doppiatore e comparsa cinematografica (CHA, 52).

 

De dix-huit à trente-quatre ans, j’ai essayé de faire du théâtre comme acteur sans y arriver et en désespérant d’y arriver. […] J’avais alors envisagé de continuer mes études de russe, pour être traducteur. Et c’est à partir du moment où j’ai cessé de vouloir faire du théâtre que j’ai commencé à en faire (TEI, 225).

 

La traduzione, in particolare, diventerà permanente dedizione al testo, costante nell’ideale viteziano di messa in scena [6]. É importante inoltre la lezione di Tania Balachova, al cui metodo d’insegmnamento nasce una prima reazione originale. «Balachova paraissait à Vitez le modèle de l’enseignement anti-intellectuel, qui debarassait l’acteur de la tyrannie du sens» (AVP, 9). E il principiante attore, ben sensibile all’impostazione di Stanislavskij, tende subito a individuare una pedagogia propria, desunta dall’incessante riflessione sul fenomeno attorale, assunto come base d’ogni esperienza creativa di palcoscenico. Frattanto, aveva iniziato a collaborare con «Théâtre populaire», proprio con un articolo sul maestro russo [7]. «Antoine Vitez est un marginal du théâtre – ha osservato Bernard Dort – […]. Sa marginalité singulière tient à ce qu’il a été, avant tout, un pédagogue» (ETE, 11). Il suo impegno in quel campo inizia con un atelier presso l’Université du Théâtre des Nations nel 1965; dal 1966 al 1969 tiene corsi di «approche du texte» alla Scuola di mimo di Jacques Lecocq.

È interessante seguire e distinguere, a partire dal confronto con Stanislavskij, mediato dalla Balachova, fino alla rivelazione della convenzione secondo Mejerchol’d, l’evoluzione dell’idea di Vitez sul teatro e sul suo determinante centrale, l’attore. La Scuola si pone così immediatamente e continuamente oltre che come luogo ideale di apprendimento e trasmissione di sapere, come momento della creazione scenica. Infatti, prima viene la scuola poi la messa in scena, derivata questa da quella, in un processo non di filiazione dai precursori, ma di generazione d’affinità ideale. Con «L’École est le plus beau théâtre du monde» (ETE, 237) il Maestro echeggia l’ideale di Charles Dullin, riportandolo a una più radicale coerenza creativa. Nell’itinerario di Vitez insegnante (aspetto forse sfuggito anche allo studioso e allo spettatore attento, avanti l’uscita degli Écrits e dei filmati delle sue lezioni, alla Scuola consacrati) si incontrano, a partire dal lavoro presso Lecocq, le mete primarie e i procedimenti per raggiungerle, registrati diaristicamente:

 

Je me suis obligé à tenir ce journal au debut pour des raisons pratiques, comme on tient un journal de bord. Puis la forme a changé […]. Et c’est aussi la nature de ce travail qui a changé. Au debut je pratiquais une sorte de thérapeutique de l’acteur, ou plutôt du non-acteur se faisant acteur et mon travail reposait entièrement sur la notion d’exercice; […] j’ai renoncé à l’exercice pour lui-même […] cette dérive est l’histoire d’une critique lente et pas toujours consciente de Stanislavski (ETE, 56).

 

Si afferma in quel passaggio la figura di un moderno umanista che si sente maître in un gruppo di attori, fra umiltà pedagogica ed esuberanza di vocazione; che dalla Scuola passa alla messa in scena con logica naturalezza, poiché appunto «c’est l’École qui est la première». L’insegnamento infatti è inserito in un progetto che si riconosce provvisorio, metamorfico e relativo; che nell’aspirazione al nuovo, all’inaudito, attraversa l’intera tradizione, perché non si dà ”conservazione” se non “critica”. Ne deriva il principio della «non-identification des acteurs aux personnages», fondamentale tanto nella didattica, quanto nella pratica della mise en scène. Per Banu, «Ce pédagogue écartelé» che si proponeva quale «maître dévoyé» tramite un «programme scandaleux», basato sulla gratuità, l’inutilità, votato quindi all’inadempimento; eleggendo «l’école à règle monastique [… ]. Il reste sa fiction inaccomplie: l’école comme recommencement» [8]. Ne consegue un elogio dell’ immaturité come virtù, per cui il docente si sente accomunato agli allievi sia per la sua ignoranza sia per curiosità di ricerca. Pertanto, Vitez fu il vero successore di Jouvet: «Lui, le meyerholdien né, écrit une phrase qui le rattache à Jouvet dont il fut le véritable successeur, par-delà les nombreuses filiations qu’il s’est constituées». Nello sviluppo viteziano, la concezione del corpo dell’attore passa dalla dimensione poetica a quella epica - sempre per Banu - seguendo l’analogia fra scuola e marionetta, che comporta il pericolo del «corps manieriste», retorica della radicalizzazione corporea nell’arte dell’attore [9].

La scelta della «convention consciente», cui si alludeva, coincide dunque con la scoperta di Mejerchol’d, sentito in opposizione a Stanislavskij, nell’eterno scambio fra naturalismo e antinaturalismo. E la scissione dell’Arte amata nei due aspetti inconciliabili di sperimentale e popolare, gli appare errata, quando dall’inizio si chiede: «Y a-t-il deux théâtres?» [10]. Più tardiva, l’attenzione a Brecht, che gli offre una concezione condivisibile per ciò che attiene all’attore. In tempi di brechtismo ideologico o manieristico, dopo l’allestimento di Mère Courage (1973), Vitez chiariva la propria posizione in un’intervista: «Je n’ai besoin ni de le sauver, ni de ne pas le sauver, je n’ai besoin, moi, que de le traiter» [11]. Il confronto col drammaturgo tedesco prosegue nella corrispondenza con René Kalisky: «Il faudrait préciser ce qui concerne la distanciation brechtienne. Car ce mot est une traduction trop inexacte de Verfremdungseffekt. Il n’y a là aucune idée de distance mais d’étrangéité – on aurait dit en ancien français d’estrangement: c’est le sens du mot russe ostranénié, d’où est tiré le mot de Brecht» [12].

Il titolo «Teatro delle Idee», apposto come assolutamente sintetico del suo sforzo, nella prima raccolta dei suoi Scritti, effettivamente risponde al disegno profondo, antico dell’autore, conseguenza estetica ed operativa del suo pensiero. «Je découvrais le théâtre des idées», precisava l’autore riferendosi alla lettura di Électre. Le Idee sorgono feconde nel creatore assieme alle Immagini emotive: «L’émotion c’est l’idée même», dichiara in un’intervista filmata della maturità (Journal intime de théâatre, 1988. THE 2.91), escludendo l’opposizione fra le due tensioni [13]. Analogamente sorgeva, significativa e sintetica, la concezione di un «théâtre élitaire pour tous», espressa nel 1968, ribadita nel 1972 e ripresa nel 1981 (ETM, 61, 69-70, 178) [14]. Finché a conclusione dell’esperienza di Chaillot e in vista di quella al Français, Vitez sogna variazioni attorno a un «Grand Théâtre d’Exercice» (ETM, 186), a un «Musée imaginaire du théâtre» (ETM, 270) o a un «Théâtre d’expérience» (ETM, 311).

Sono poche e ravvicinate le tappe di un cammino piuttosto rapido di espressione ed acquisizione di moventi riconducibili a concreti e probanti risultati scenici. La morte prematura contribuiva a suggellare in Opera definitiva la carriera di un artista unico.

 

 

 

 

 

PATRICE CHÉREAU

 

IMMAGINE, RACCONTO, SCENA

 

 

1. Temi e problemi.

La vicenda artistica di Patrice Chéreau, da tempo ormai storicizzabile nel complesso, consente di osservarla quale fenomeno evolutivo articolato, comprensivo dell’esordio del talento nativo e del suo sviluppo poliespressivo; di distinguere in essa crisi, deviazioni e affermazioni, fino a una probante maturità, precocemente e rapidamente conseguita negli anni Settanta. La presenza ininterrotta dell’artista nell’ultimo decennio, richiede una considerazione della sua opera, unica nella sua evoluzione, fra i modelli più rappresentativi del mezzo secolo trascorso. Patrice Chéreau, l’unico vivente fra quelli da me scelti e studiati, ne costituisce inoltre l’esempio (con Mnouchkine e Planchon, fra tutti; escluso Brook, da considerarsi apolide) significativo nella continuità e nella latenza delle ulteriori prove sorprendenti. Problematiche e bilanci restano dunque aperti in questo caso, mentre è ineludibile un consuntivo finora sempre rinviato. Lo rende ancor più necessario l’attribuzione del Premio Europa per il Teatro nel 2008, in concomitanza con l’uscita della prima monografia biografica [15]. La sua opera insomma, ovunque acclamata, non è certo adeguatamente studiata e valutata in Italia.

Nel decennio 1980-90, l’artista s’imponeva da uomo di teatro che, sia mediante confronti memorabili con i classici (Ibsen, Čechov, Shakespeare), sia con l’attenzione all’autore contemporaneo (preso a modello in Koltès), aspirava a una scena totalizzante, sintetica delle restanti arti dello spettacolo, compreso il melodramma. La prosecuzione dell’attività fonde eclettismo e fedeltà ai motivi essenziali, lasciando aperte verso il teatro, l’opera e il cinema, le tre opzioni espressive complementari; non trascurando il contributo formativo per le nuove generazioni di attori.

L’arte di Chéreau è apprezzabile nei caratteri riconoscibili in ogni sua manifestazione creativa, oltre che dall’esame analitico di ciascun allestimento a confronto contestuale con la restante sua opera. Risultano comunque preziosi i testi programmatici e i numerosi (se pure spesso più diseguali e generici) documenti della riflessione teorica, riversata nelle frequenti interviste. L’iconografia e la bibliografia più recenti riguardano preferibilmente cinema e melodramma, benché i suoi Archivi, depositati all’IMEC dagli anni Novanta, aprano ormai allo studioso la disponibilità di un materiale, cospicuo, a partire dal lavoro iniziale. Essenzialmente concentrato sul lavoro di palcoscenico e sul suo risultato, Chéreau non si prefigge un’idea di teatro univoca, quanto un obiettivo teso all’assoluto, precisato ad ogni spettacolo. Le note tendono a scomparire, nei programmi di sala degli ultimi allestimenti ed è la sua visione a condensarsi in ritornanti immagini o strutture primarie, appariscenti e sfuggenti, definibili tramite il metalinguaggio, talvolta disagevole, dell’allusione descrittiva. Fascino ed emozione, soprattutto a posteriori, ne segnalano la duratura influenza in una memoria accesa e reattiva presso gli interpreti della teatralità contemporanea. L’oscillazione permanente va dall’uso dello spazio all’italiana al ripudio degli strumenti di quella tradizione, per instaurare condizioni originali, a partire da un vuoto (o nudità) esposti quasi provocatoriamente. Così da ultimo si è avuto con Phèdre l’animazione di un spazio neutro cangiante, adattabile alle risonanze della drammaturgia classica; mentre con Così fan tutte, si riprova il gusto funzionale della boîte all’italiana, sia pure ricondotta a uno spoliamento insolito.

Le varie funzioni del suo linguaggio scenico, enfatizzate di volta in volta in qualche particolare saliente, miscelate secondo proporzioni variabili, riguardano però sempre l’intera gamma delle componenti dello spettacolo. L’onnivora disposizione del regista era apparsa dal principio al Copfermann, intervenuto a proposito di Les Soldats: «Attore (ha il ruolo del conte Audy), regista, autore della versione scenica, della scenografia, Patrice Chéreau illustra con genio il tentativo di fare della regia una scrittura totale, quella per cui tutte le altre si trovano sistemate» (COP, 94). In seguito, l’idea del regista-demiurgo s’era avvalorata nella conversazione con Maria Grazia Gregori. Una posizione discutibile, sulla quale non manca la contestazione puntuale in un discorso più generale [16]. Così, una meta formale scaturisce sempre in Chéreau da una pulsione emotiva poeticamente motivata, circoscritta da un’ideologia, per confluire in un teatro dell’illusione: «Non mi interessa molto che la gente si ricordi che è in teatro, per questo ho sempre utilizzato il teatro, come utilizzerò il cinema, in un certo senso come illusione» [17]. E in un’intervista successiva:

 

P. C.   Il fatto che gli attori siano vivi sul palcoscenico, accentua il fatto che si ‘racconti’ la storia di Re Lear o di Romeo e Giulietta. È l’illusione peculiare del teatro.

G. C.   L’illusione di un eterno presente.

P. C.   Sì, ma è un’illusione, assoluta... [18].

 

Propostosi quale creatore della scena al momento della più vivace polemica sul Teatro Popolare, inerente alla fase critica del T.N.P. di Vilar (sfociata nella stagione della politicizzazione della cultura nel suo complesso), Chéreau gode di un’iniziazione all’arte in genere e del teatro in particolare, in un’atmosfera favorevole, a partire dall’ambiente familiare nel quale il contatto coi genitori dispone naturalmente a interessi privilegiati. «Ces années d’enfance se sont transformés en théâtre», ricorda Chéreau, precisando come alle esigenze del gusto corrispondano quelle dell’approccio creativo: «Si on trouve des solutions aux problèmes techniques au détour de ces solutions surgissent les grands lignes, les grandes idées du spectacle» [19]. La prima occasione di mettersi alla prova gli si offre frequentando il liceo parigino Louis-le-Grand, quando lo studente si inserisce nel gruppo teatrale amatoriale. Mentre si esercita traducendo Kleist, incontra Jean-Pierre Vincent, primo compagno di un’avventura breve ma intensa, proseguita con ritornanti interferenze. La testimonianza dell’amico-collega contribuisce a ricostituire un clima e un ambiente in anni decisivi:

 

Nous étions, comme on dit, une bande de jeunes. [...] Nous éritions. Une géneration magnifique nous précédait. [...] Nous les prenions pour modèles et pour cibles. La sagacité de Brecht... nous servait de levier d’Archimède. Et aussi la lecture d’Althusser, de Barthes. Patrice multipliait les projets de mise en scène. [...] C’était un style nouveau en France, très gymnastique, allegrement critique, drôle, au tempo très désarticulé [20].

 

Momento notevole d’aggregazione per numerosi gruppi teatrali, il decennio Cinquanta-Sessanta registra tentativi di ricerca e sperimentazione importanti, se nel volgere del decennio sorgono da quell’ambito figure teatrali eminenti. Dai primitivi sodalizi informati alla gestione paritetica e alla creazione collettiva, crescono e si impongono tra le altre – con quella di Chéreau – le personalità di Planchon, Mnouchkine e Vitez [21]. Frattanto, Jean-Louis Barrault viene nominato direttore dell’Odéon-Théâtre de France (1959) e Roger Planchon, stabilendosi a Villeurbanne, consolida uno sforzo di  decentramento esemplare. Chéreau allestisce nell’ambito studentesco L'Intervention, di Victor Hugo (1964), affiancato nello stesso spettacolo dalla prova di Vincent, Scènes populaires, di Henri Monnier. L’anno seguente, Fuente Ovejuna, di Lope de Vega, ottiene il massimo riconoscimento al Festival di Erlangen. Si allarga l’interesse per Brecht, di cui Vilar ha creato Mère Courage e Arturo Ui. Ariane Mnouchkine esordisce con Gengis Khan di Bauchau nel 1961; collabora con Adamov all’allestimento di Les petits bourgeois, di Gor’kij (1964 ) e fonda il Théâtre du Soleil, improntandolo decisamente al lavoro collettivo. Chéreau, fra i giovanissimi e più dotati talenti, attira l’immediata attenzione della critica, fra cui gli influenti Bernard Dort, Pierre Marcabru e Gilles Sandier. Convinto fautore dell’animazione culturale, accoglie con entusiasmo la proposta di verificarne l’efficacia a Sartrouville, dov’è chiamato dall’Amministrazione municipale a gestire il teatro e le connesse attività.

 

Il est soucieux d’élaborer un service public à vocation culturelle [ ... ]. Il a vingt-trois ans. Encore frêle d’apparence, il semble parfois douter de ses propres possibilités et s’étonne que des Parisiens se déplacent et suivent ses représentations dans une banlieue lontaine [22].

 

Tre anni, dal 1966 al 1969, ricchi di produzioni di qualità (una ripresa di L'Héritier du village, la creazione di Les soldats, fino a Le prix de la révolte e Dom Juan ), si concludono con ingenti debiti finanziari, principalmente dovuti a ritardi nelle sovvenzioni. Il giovane direttore giunge così alla svolta decisiva del Sessantotto con la coscienza già acuita di un dissidio fra progettualità gestionale e istanze poetiche. L’utopia della “contestazione permanente”, sfociata intanto nell’occupazione dell’Odéon, gli consente una reattività critica verso l’esperienza, pure fruttuosa e formativa, appena  vissuta. Tanto che la co-direzione del T.N. P. di Villeurbanne, alla quale sarà chiamato nel 1971 accanto a Roger Planchon e a Robert Gilbert, testimonierà una scelta di campo, non certo ideologica soltanto, con cui rivendicare autonomia creativa. In un diffuso autodafé, il regista reduce dall’immersione totale nell’impresa periferica, così tracciava il bilancio negativo, e tuttavia ricco di futuro, di quel teatro che 

 

manquait d’objets politiques cohérents et s’en étonna. Il ne lui resta bientôt plus qu’à mourir. Ce qu’il fit. Aujourd’hui, loin de nous lamenter, nous disons que cette mort était saine, qu’elle était utile et nous la qualifierons d’exémplaire [ ... ]. Quelle malhonneteté ! Notre confusion a commencé là ! Nous pensions que faire de l'action culturelle était une pratique automatiquement politique, que, lorsque nous allions dans les comités d'entreprises, notre combat pour la culture était en soi militant [...]. Ce lien entre culture et politique n'a jamais été théorisé dans les théâtres populaires [...]. Mais en nous offrant  le plaisir délicat des rêveries humanistes, nous n'avions pas non plus créé un art exigeant: ce théâtre populaire n'avait pas non plus été un lieu privilégié de la recherche artistique qu'il aurait pu être  [... ]. Les problèmes de la création y avaient été oubliés... on ne s’y était jamais posé de questions sur les formes, sur ce qu'il fallait en faire, comment les créer et pourquoi [23].

 

La svolta è decisiva per l’autocritica che suggerisce con coraggio un chiarimento di vocazione - senza misconoscere l’opera di Vilar - seguita alla verifica sul campo della dichiarazione sottoscritta a Villeurbanne dalla riunione degli Stati Generali del Teatro.

 

Dans une période, doit-on le rappeler, d’une extrème violence idéologique […] Chéreau trouve donc la lucidité d’assumer la pleine ambiguïté de son lien à l’héritage culturel, de poser sa quête théâtrale avant tout comme une recherche artistique avec ce que cela suppose d’individualisme et d’officialiser le divorce de son art d’avec l’action politique [24].

 

Tale esame di coscienza trova riscontro per analogia nella severa riflessione di Vitez sulla sua adesione al Partito Comunista. Bernard Poirot-Delpech rileva allora l’allentamento della tensione popolare sostenuta da Vilar e denuncia un disimpegno che coinvolge Chéreau [25]. La situazione del momento, colta attraverso la drammaturgia, è illustrata da Bernard Dort, consapevole di come l’egemonia assunta dalla «concezione neo-marcusiana della cultura considerata come elemento di integrazione» trascuri il considerevole lavoro sui classici lungo un ventennio, per sfociare nell’utopia di un cambiamento radicale. Pertanto, la stagione 1968-69 (“del rovesciamento” e non soltanto per Chéreau), fa  registrare la rapida cancellazione dai cartelloni dei classici contemporanei, per fare spazio a inediti drammaturghi viventi. Proprio allora Chéreau, lasciata Sartrouville, apre la parentesi italiana al Piccolo Teatro di Milano, al lavoro del quale s’era ispirato agli esordi. L’applicazione della sensibilità ai metodi di lavoro e alle mete estetiche viene determinando la decantazione e l’atrofia di alcuni elementi distintivi del primo stile, quali la brechtiana “povertà” dei materiali, degli  oggetti e dei costumi; la recitazione tesa, “espressionista”, sottolineata dal pesante maquillage degli attori e l’insistenza su pochi temi-chiave, con la preferenza accordata alle figure rappresentative della crisi della borghesia, della quale l’intellettuale si fa insigne rappresentante; in polemica non larvata con la scelta precedente del personaggio “eroico” presso Vilar.

Il sincretismo dei mezzi scenici e il processo di mise en abyme s’evidenzia nel biennio italiano che comprende Splendore e morte di Joaquin Murieta, di Neruda (1970), Toller, scene di una rivoluzione, di Dorst  (1970), Lulu  di Wedekind  (1972) con la digressione a Spoleto (XIV Festival dei Due Mondi, 1971) per presentare La finta serva, di Marivaux. Così, avendo iniziato ventiduenne a denunciare la precarietà della classe egemone (da Les soldats a Dom Juan ), a ventisette anni, non più enfant prodige ma professionista discusso e ammirato, Chéreau si dispone a condividere dieci anni di un teatro che nell’inclinazione estetizzante riconosce la massima valenza “politica”. Davvero molto doveva avere contato l’esempio di Planchon, catalizzando in lui una significativa controtendenza. Quando infatti nel 1972 il Théâtre di Villeurbanne aveva ereditato il marchio dell’impresa vilariana, Chéreau era riuscito a sottrarsi alla vicenda burocratica conseguente, rilanciando anzi rinnovate aspirazioni formali. Dopo la Finta serva e l’annuncio del rientro, Dort notava: «Le talent de Chéreau n’est pas en cause mais bien le tour, qu’a pris son travail. De plus en plus, quels que soient les auteurs qu’il choisit, Chéreau est tenté de s’enfermer, avec complaisance, dans ses propres fantasmes» [26]. Una lettura molto posteriore considera un “triplo lutto” da elaborare dopo gli scacchi subiti dall’artista. Superato il periodo milanese, un altro “manifesto” segnala il progresso prefigurato: La mousse, l’écume. L’itinerario estetico procede in funzione dell’ideologia assunta:

 

S’il n’emploiera jamais l’expression théâtre d’art, sans doute pour lui ridondante, il ne perdra aucune occasion  de se définir comme artiste et - surtout après son séjour à Milan - comme artisan du théâtre. [… ] Car Patrice Chéreau comme la plupart des metteurs en scène que nous relions au théâtre d’art a voulu de sa prémière mise en scène inventer un passé à son geste artistique se choisissant des racines théâtrales, se dotant d’une généalogie plus ou moins révée [27].

 

Quegli anni offrono uno spettro completo dell’Arte della Regia (Age de la représentation è la formula introdotta da Dort), attraverso una costellazione variamente accesa da fuochi artistici successivi. Iniziando con 1789, la Mnouchkine crea nel novembre 1970 a Milano uno spettacolo memorabile, per il successo del quale la leader itinerante per spazi extrateatrali, giungerà ad installarsi alla Cartoucherie di Vincennes (1972), mettendovi in scena 1793. La cité révolutionnaire est de ce monde. Poi con l’Âge d'or (1975) insegue ancora la creazione collettiva. La parabola ascendente di Antoine Vitez, attivo al Théâtre des Quartiers d’Ivry, tocca i massimi contigui di Faust (1972), Mère Courage (1973), Le pique-nique de Claretta (1974), Phèdre e Partage de midi (1975), concentrandosi nella tetralogia di testi di Molière nel 1978. La capitale ospita frattanto, in atipico, fecondo isolamento, il lavoro di Peter Brook al Centre International de Créations Théâtrales, insediato al Théâtre des Bouffes du Nord, dove dal 1974 al 1990 produce un continuum straordinario.

Dallo slancio iniziale ai diversi esiti assoluti degli anni Settanta, è possibile una coerente interpretazione dei fondamenti dell’arte di Chéreau, se non addirittura ricomporre una retorica di stilemi, moduli e canoni peculiari. Il lavoro immediatamente successivo, svolto a Nanterre dal 1982 al 1990, sarà in grado di mostrare, per conferme o differenze, il completamento di una vocazione definita nei suoi confini maturi e decisivi, attraverso la complementarità e l’audacia di spettacoli quali Peer Gynt, Combat de nègre et de chiens, Les Paravents e Hamlet. La tetralogia koltesiana, in particolare (1983-1988) e le singolarità di Les paravents e Hamlet, ammettono più che una radicalizzazione di espressività o un’inversione di tendenza, una maggiore complessità di interferenze fra codici e immagini, mezzi impiegati e visioni suscitate. Con l’accesso alla nuova sede, le ragioni artistiche hanno molto influito anche sull’imprenditorialità della gestione, dai rapporti col pubblico all’attività della scuola di formazione dell’attore. Ancora sotto l’egida istituzionale, si esalta il ruolo di outsider, del resto congeniale alla personalità di Chéreau. Ma non nel senso di un individualismo anarchico, fino alla deviazione da obiettivi definiti statutariamente con la co-direttrice Catherine Tasca, come è stato sostenuto da un’informazione parziale e acritica, purtroppo introdotta in Italia [28]. Al Théâtre des Amandiers, Chéreau trova un luogo «où l’on utilise des techniques et des expériences de travail et de production nouvelles […] où les exigences artistiques sont primordiales, un lieu traversé par les autres et replié sur lui même». Più avanti, avvertendo il rischio della sclerotizzazione, trae un temporaneo bilancio: «Six années que Nanterre existe […]. Nanterre fonctionne à l’impatience, mon impatience, en tous cas […]. Après six ans, il faut modifier certaines des règles du jeu si l’on veut échapper à la sclérose» [29]. In quel Centro di ricerca e produzione, anche punto di raccolta e di confronto di esperienze straniere, attraverso ospitalità e collaborazioni a respiro europeo, vive una stagione di libertà, nella quale si ripresenta al creatore la “tentazione” cinematografica.

Se l’equilibrio fra poesia del testo e sua immagine rappresentativa viene spostato verso obiettivi sempre più ambiziosi, s’instaura un nuovo sfruttamento dello spazio, mentre cresce la solidarietà con l’attore nel riconoscimento dei suoi pieni connotati psicofisici. In tale ambito si situa il ricorso ad attori-monstres come Desarthe, Casarès, Piccoli, Maillan e la simpatia per vedettes italiane, come Alida Valli o Valentina Cortese, conosciute e apprezzate nel soggiorno precedente. Parallelamente, l’artista dà adito a riserve sui risultati dell’accumulazione e della dilatazione nel trattamento dei testi “nuovi” di Koltès, affrontati alla stregua di quelli classici, in una sequenza dai rari precedenti. Il Théâtre des Amandiers resta connotato da una stagione intitolata al suo direttore (che vi produce ancora Quartett di Müller e uno spettacolo da Čechov, Platonov nel 1987), conclusa nel 1990, quando alla direzione subentra Jean-Pierre Vincent [30].

Quel periodo d’evoluzione generale e di intersezioni fra le maggiori personalità creative vede  Lavelli alla conquista di un proprio spazio nazionale al Théâtre de la Colline. Il suo repertorio esaurisce Copi, con La nuit de Mme Lucienne (1985) e Une visite inopportune (1987). Vitez ha sostenuto la massima responsabilità al Théâtre National de Chaillot rappresentandovi Le triomphe de l'amour e Ubu roi  (1985), L'Échange (1986). Georges Lavaudant, introdotto Le Balcon di Genet alla Comédie-Française (1986), diviene codirettore a Villeurbanne l’anno seguente. Ariane Mnouchkine conduce, fino al 1992, un grandioso spettacolo multiplo sul mito degli Atridi, che ha attratto alla Cartoucherie pellegrinaggi di un pubblico fedele e cosmopolita. Chéreau, nuovamente transfuga dall’istituzione, affronta Botho Strauss, con un allestimento di Le Temps et la chambre nel 1991. Lo stesso lavoro di Strauss lo vede subito impegnato nella versione cinematografica; indi si dedica al progetto di La Reine Margot, presentato al Festival di Cannes nel 1994. 

Lungo gli allestimenti successivi, la poetica di Chéreau, colta fino all’ultima attualità, conferma il pragmatismo di un adeguamento del gusto a precisi obiettivi fissati occasionalmente. Se Phèdre ne è finora il coronamento, probante e contraddittorio insieme (mentre le letture-performances di Dostojevkij, Duras e Guyotat, non sembrano alterare l’equilibrio mantenuto fra performance attoriale e quella del metteur en scène o del cineasta), l’eminenza del “demiurgo” è confermata fra i creatori di eventi “moderni”, che per il Lista comprendono l’opera di Strehler (Cap. VII, La scène magnifiée, Lista, 1997).  

Tracciato così un reticolo innanzi tutto cronologico, d’approssimazioni e confronti fra nodi estetici e circostanze operative - nel quale non tutti i dati sono riconducibili alle loro reciproche influenze - si possono individuare le costanti - in tendenze o acquisizioni vere e proprie - dell’arte della scena secondo Chéreau. La puntualità delle recensioni, un certo ritardo di valutazione storico-estetica in prospettiva, lasciavano che il dinamismo dell’artista anticipasse e spesso disorientasse il giudizio sull’opera, fissata nei significativi e basilari contributi a cura dell’Aslan (Les Voies de la création théâtrale e della De Nussac (Nanterre-Amandiers. Les années Chéreau). Finché il riepilogo di Colette Godard ha risistemato il trajet completo dell’autore, ammettendone l’importante voce di commento a integrare dati comunque obiettivi. Così Patrice Chéreau consegna di sé il ritratto di un artista instancabile, ma che non ha lavorato per accumulare performances, né tantomeno per compiacersi di riconoscimenti e premi.

 

Il faudrait surtout, j’aurais surtout envie de dépasser cette liste de spectacles […]. La vie d’un metteur en scène, ce n’est pas enquiller un projet après un autre, c’est construire des ponts […]. C’est un métier, le mien, plus simple qu’on ne croit (GOD, 275).

 

Sapendo di restare in tensione, in cammino verso un traguardo ideale, riproposto anche nell’ultima confessione: «J’y arriverai un jour».

 

 

                                  *   *   *   *   *

 

 

* Abbreviazioni e guida alla lettura (Antoine Vitez)

OPERE

TEI Le Théâtre des idées, 1991.

ETE Écrits sur le théâtre, I. L'École, 1994.

ET1 Écrits sur le théâtre, II. La Scène 1954-1975, 1995.

ET2 Écrits sur le théâtre, III. La Scène 1975-1983, 1996.

ET3 Écrits sur le théâtre, IV. La Scène 1983-1990, 1997.

ETM Écrits sur le théâtre. Le Monde, 1998.

CHA Conversations avec Antoine Vitez (De Chaillot à Chaillot),1999.

 

CRITICA

AVP A. Ubersfeld, Antoine Vitez, metteur en scène et poète, 1994.

ALB N. Léger, A. Vitez. Album, 1994.

 

 

 

 

** Abbreviazioni e guida alla lettura (Patrice Chéreau)

OPERE

ARR P. Chereau, J’y arriverai un jour, 2009.

 

CRITICA

COP É. Copfermann, Il teatro continua, in A. Lazzari, La traversée du désert, 1969.

TRE N. Treatt, Chéreau, 1984.

CHE O. Aslan (cura di), Chéreau, 1986.

MSP R. Temkine, Mettre en scène au présent. II, 1979.

NAN S. de Nussac (cura di), Nanterre / Amandiers. Les années Chéreau, 1990.  

QUA F. Quadri, Chéreau, in Il teatro degli anni Settanta, 1982.

BDO B. Dort, A double tranchant, Chéreau, in J. de Jomaron, Le Théâtre en France, 1988.

GOD C. Godard, Patrice Chéreau un trajet, 2007.

 

Il riferimento fra parentesi nel testo rinvia alla scheda bibliografica completa dell’opera, secondo la modalità: Autore, data pubblicazione, pagina. L’abbreviazione, all’opera e alla pagina.

 



[1] Un’Antologia degli Scritti (a cura di Georges Banu e Danièle Sallenave) era apparsa appena postuma: A. Vitez, Le Théâtre des idées, Paris, Gallimard, 1991. Cfr. inoltre gli Écrits sur le théâtre, 5 voll., Paris, P.O.L., 1994-1998. 

[2] Oggi i Fonds Antoine Vitez sono depositati integralmente presso l’IMEC-Institut Mémoires de l’Édition Contemporaine. Abbaye d’Ardenne (Caen). Su tale base è condotta l’edizione P.O.L. (a cura di Nathalie Léger). La Bibliothèque Nationale de France conserva i documenti relativi al lavoro presso il Théâtre National de Chaillot (1981-1988) e al Théâtre des Quartiers d’Ivry; la Comédie-Française, quelli relativi alla biennale amministrazione di Vitez.

[3] M. Vinaver, Portrait, ALB, 8.

[4] C. Amiard-Chevrel, La critique et Antoine Vitez à Chaillot, «Revue d’Histoire du Théâtre», 2, 1998, p. 152.

[5] Cfr. G. Poli, Scena francese nel secondo Novecento. I: J. Vilar – J.-L. Barrault, Genova, Il melangolo, 2007, p. 16.

[6] Cfr. Le devoir de traduire. Entretien, «Théâtre/Public», 44, mars 1982 (TEI, 287) e G. Banu - D. Sallenave, De la traduction généralisée, Postaface a TEI, cit. Inoltre, CHA, 54.

[7] La méthode des actions physiques de Stanislavski, «Théâtre populaire», 4, nov.-déc. 1953 (ETE, 21-33).

[8] G. Banu, Vitez, l’École ou le lieu de l’origine, «Alternatives théâtrales», 70-71, déc. 2001, pp. 91-2. Cfr. Editoriale, Dossier Scuole di teatro, «Hystrio», 4, 2002, che rileva l’anti-utilitarismo delle scuole secondo Vitez.

[9] G. Banu, A. Vitez,l’acteur et la marionnette, in Le Théâtre ou l’instant habité, Paris, L’Herne,1993. A. Vitez, Éditorial, «L’Art du théâtre», 1, 1985 (ETM, 228).

[10] Y a-t-il deux théâtres?, «Théâtre populaire», 54, 1964 (ETM, 9).

[11] Entretien avec Georges Banu, in Bertolt Brecht, «Cahiers de l’Herne», 1, 1979 (TEI, 237).

[12] Lettre du 21 octobre 1975, «Prospero», 1, juillet 1991, p. 3. Cfr. la comparazione Brecht/Artaud, tramite il Living Theatre, in ETM, 42-43. 

[13] A. Vitez, Le Théâtre des idées (1986), TEI, 13. Cfr. G. Lascault, Théâtre des idées, théâtre des figures, «L’Art du Théâtre», 10, 1989 e G. Banu - D. Sallenave (cura di), op. cit., 1991.

[14] Cfr. almeno per critica, B. Besnehard, Élitaire pour tous. Digressions e B. Dort, Une pratique…, «L’Art du Théâtre», 10, 1989.

[15] C. Godard, Patrice Chéreau un trajet, Monaco, Éditions du Rocher, 2007. Il libro, comprendente inserti del Regista, riporta la sua prima ammissione dell’omosessualità (finora intuibile o sospettabile), risalente agli anni Sessanta: cfr. p. 40.

[16] M. G. Gregori, Il signore della scena, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 186; A. Fersen, Intervento al Convegno Int. dei Critici di Teatro, Roma, 20-26 novembre 1985, in Atti, Roma, A.N.C.T., 1986, pp. 50-54.

[17] Colloquio con Patrice Chéreau, QUA, 110.

[18] Il momento rubato. Conversazione tra Patrice Chéreau e Gianfranco Capitta, «Teatro in Europa», 10, 1992, p. 10.

[19] Dichiarazione di Chéreau, «Le Monde», 16 février 1976.

[20] J.-P. Vincent, Le révélateur, TRE, 25. Cfr. il Cap. Apprentissage, GOD, 13-5.

[21] C. Gatto Trocchi, Compagnie Patrice Chéreau de Sartrouville, in Per una sociologia dei gruppi, Roma, Bulzoni, 1973.

[22] O. Aslan, Les élements d'une poétique, CHE, 15. P. Madral ha fornito i dati statistici della gestione di Chéreau a Sartrouville (1967-1968) in Le théâtre hors les murs, Paris, Éd. du Seuil, 1969, pp. 159-60. Cfr. il parere di Claude Sévenier, successore di Chéreau, in GOD, 58-9.

[23] Une mort exémplaire, «Partisan», 47, avril-mai 1969, p. 67. Chéreau ribadisce la posizione nel 1973: «Je ne crois plus à rien de ce qui a fait le combat théâtral jusqu’à present», in La mousse, l'écume, «Travail Théâtral», 11, printemps 1973, p. 17. Sulla “presa” dell’Odéon, cfr. R. Gaudy, Dall'Odéon ad Avignone: il luddismo o la rivolta contro le macchine nel 1968, in La traversée du désert, cit. e P. Ravignant, La prise de l'Odéon, Paris, Stock, 1969.

[24] A.-F. Benhamou, Chéreau: utilité et futilité, in  AA. VV., Les Cités du Théâtre d’Art, Paris, Éd. Théâtrales, 2000, p. 301.

[25] B. Poirot-Delpech, Relâche chez les héritiers de Vilar, «Le Monde», 13 juillet 1972.

[26] B. Dort, in Théâtre en jeu, Paris, Éd. du Seuil, p. 279. La priorità artistica, in quel tornante, è confermata dall’affermazione «Je suis metteur en scène, pas tribun» (Cit. in B. Dort, À double tranchant: Patrice Chéreau, « Théâtre en Europe», 17, juillet 1988) e dalle dichiarazioni al Copfermann, La mousse, l'écume, cit.

[27] A.-F. Benhamou, op. cit., p. 300. Nell’attualità, era intervenuto il monito di Sandier sul «jeune metteur en scène de talent, [lequel] devenu star internationale, a été piegé par son esthétisme, son goût du baroque décadent» (in Théâtre en crise 1970-1982, Grenoble, La pensée sauvage, 1982 e l’analogo rilievo di “concezione decadente e populista” emesso da Blandi per La finta serva, in «Stampa Sera», 28 giugno 1971. 

[28] Cfr. la voce Patrice Chéreau  di Léonidas Strapatsakis in Enciclopedia del Teatro del 900, Milano, Feltrinelli, 1980. Improntata unicamente a una cronologia desunta dal Dort, forniva una spiegazione semplicistica e parziale del rapporto fra il regista e l’Istituzione.

[29] Da Conference de presse, Nanterre, Saison 1983, in CHE, 15 e Je m'amuse, «Théâtre en Europe», 17, juillet 1988, p. 19. Sulle circostanze del passaggio a Nanterre, cfr. GOD, 155-57.

[30] Per un vasto rendiconto, cfr. «Théâtre en Europe», 17, cit., dedicato a Nanterre-Amandiers. Un volume (NAN, a cura di Sylvie de Nussac), documenta l’intera vicenda.

 

 

 

di Gianni Poli


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