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Rino Alessi

Carlo Cossutta
Un tenore venuto dal Carso

Trieste, Comunicarte Edizioni, 2010, pp. 224, 24.50 euro
ISBN 978-88-6287-053-5
Una parabola artistica strana, quella del tenore Carlo Cossutta. Nato a Santa Croce di Trieste tra le due guerre (1932) e, dunque, in pieno periodo di annessione triestina all’Italia, ma pur sempre uomo “di frontiera” com’è nel destino di chi nasce in quell’atipica striscia dello stivale, Cossutta restò un personaggio borderline anche nella vita canora: debutto, gavetta e primi successi in Argentina, dov’era emigrato sedicenne, al punto che fu a lungo conosciuto col nome di Carlos anziché di Carlo; poi un’intensissima carriera tedesca; per contro, a parte il rapporto affettivo e privilegiato con il Teatro Verdi di Trieste, scarse apparizioni italiane. Sicché, paradossalmente, la ragione per cui da noi questo «tenore venuto dal Carso» viene ricordato non sono i quarantadue anni di palcoscenico spesi con altissima professionalità e pari generosità in un repertorio dal lirico all’eroico, ma è il fatto di non avere cantato una nota: era lui il Manrico del celebre Trovatore fiorentino del 1977, contestato perché il protagonista – adeguandosi al rigore della direzione di Muti, che potò ogni prassi esecutiva non corrispondente a quanto scritto in partitura – eluse l’appuntamento, sempre atteso dal pubblico, con il Do della “Pira”.

 

Questo libro, che arriva a dieci anni dalla morte del tenore, potrebbe ristabilire la giusta percezione dell’arte di Cossutta – il cui antidivismo impedì d’oltrepassare quella soglia dove la notorietà si trasforma in celebrità – e a riscrivere una pagina, piccola o grande che sia, di storia dello spettacolo. Ne siamo debitori a una casa editrice di Trieste, Comunicarte Edizioni, che ha varato un’interessante collana (non solo di argomento musicale) dedicata alla triestinità e ad alcuni suoi illustri figli, e a Rino Alessi, che nell’ambito del medesimo progetto editoriale aveva realizzato l’anno scorso un volume su un cantante ben più popolare come Piero Cappuccilli. In entrambi i casi l’impianto è lo stesso: pubblicazione bilingue (traduzione inglese a fronte), ricco album fotografico in bianco e nero, prima parte biografica, poi il ritratto dei principali ruoli interpretati, alcune testimonianze e la cronologia della carriera, in questo caso ricostruita dalla vedova del tenore. In allegato – al contrario del libro su Cappuccilli – anche un cd antologico di registrazioni dal vivo, stimolante integrazione a una discografia in studio che fu assai limitata: il volume non indica da quali recite provengano le otto pagine selezionate, ma s’intuisce che si tratta di epoche distanti tra loro, passando dalla voce fresca e smaltata dei primi brani a quella più matura e densa dei successivi.

 

L’approccio è volutamente di tipo giornalistico-biografico, non saggistico-critico: sotto quest’ultimo profilo l’autore preferisce cedere la parola ai testimoni intervistati più che intervenire in prima persona, e pure le schede sui cinque “ruoli chiave” (Duca di Mantova, Don Carlo, Manrico, Otello, Samson) tendono a vedere come tali personaggi si collochino nella parabola canora di Cossutta, piuttosto che a disquisire in qual modo il suo Otello o il suo Manrico s’inseriscano nella storia interpretativa di questi ruoli. Ciò non toglie che, con il garbo espositivo cui è improntato il tono del libro, Alessi una precisa morale critica la tragga: quella, posta a conclusione del capitolo biografico, per cui anche un organo vocale poderoso e massiccio – Cossutta rientra senz’altro in tale categoria – può flettersi al più duttile dei “pianissimi”. Basta avere una buona preparazione tecnica. Ed è una morale tutt’altro che scontata, in tempi dove spesso si scambia la robustezza vocale per grossolanità, e si gabella per raffinatezza la vacuità fonica.

 

Nelle sei testimonianze raccolte un’istantanea vociologica è offerta dal soprano Martina Arroyo, che di Cossutta dà una definizione, per così dire, carusiana: «Un tenore drammatico (…), ma [che] ha cantato anche le parti liriche con una buona tecnica». Molto interessante è poi il ricordo di un tenore di oggi come Ian Storey, che con Cossutta ebbe un rapporto, più che da allievo a maestro (le lezioni furono pochissime), da discepolo a mentore, in qualche modo replicando il legame che s’instaurò tra Corelli e Lauri Volpi. Il suggello triestino è impresso invece dal maestro del coro Aldo Danieli: le righe che rivangano, a guerra finita, le lunghe camminate adolescenziali sue e del coetaneo Carlo dai paesi dall’altipiano carsico dove abitavano fino alla stazione ferroviaria di Miramare, per poter poi raggiungere Trieste, hanno una grazia memorialistica estranea ai consueti amarcord di maniera. E alla testimonianza di Danieli si deve il ricordo dell’episodio che più di ogni altro, forse, illumina sull’intelligenza artistica di Cossutta: quando si decise a debuttare il personaggio di Otello, per approfondirlo sotto il profilo interpretativo si rivolse a Tito Gobbi. Il più grande Jago del dopoguerra aveva molto da insegnare a un aspirante Moro di Venezia: ma quanti altri tenori avrebbero ragionato così?

 

L’eleganza della veste grafica non esclude qualche piccola svista: nella cronologia della carriera si premette che ogni debutto in un nuovo ruolo viene indicato con un asterisco, ma non sempre ciò accade, mentre nell’elenco dei personaggi interpretati troviamo, nella Butterfly, Rodolfo anziché Pinkerton. Male da poco per un libro che apre una finestra su un personaggio da riscoprire, e lo fa con una spigliatezza gentile ben riassunta dalla simpaticissima foto di Cossutta e sua moglie all’aeroporto di Chicago, che chiude il volume in un sorriso.

 

 



di Paolo Patrizi


copertina

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