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Duellanti, anno IX, n. 63, luglio-agosto 2010


Duellanti, anno IX, n. 63, luglio-agosto 2010
ISSN 1724-3580

Come di consueto, anche il nuovo numero di «Duellanti» si apre con la ricca sezione “radiografie”. L’attenzione dei redattori della rivista si concentra sull’ultimo film di Richard Kelly, The Box. Tratto dalla short story intitolata Button, Button (1970), scritta dall’americano Richard Matheson, la pellicola di Kelly è stata flagellata dalla critica statunitense e ignorata dal grande pubblico. Nel difendere l’opera del regista, Matteo Bittanti trova dei punti di contatto con i precedenti lavori di Kelly, Donnie Darko (2001) e Southland Tales (2006), e con due diverse serie televisive di successo, X-Files (Chris Carter, 1993-2002) e Lost (J.J. Abrams, Damon Lindelof, Jeffrey Lieber, 2004-2010). Dal primo serial, Kelly riprende il tema marziano, demiurgico e cospirativo, mentre dal secondo il concetto che la nostra esistenza è mero purgatorio: sta a ogni singolo individuo scegliere tra la luce e l’oscurità. Secondo il critico, The Box si presta a interpretazioni religiose, mostrando «un look anacronistico» (un 1976 surreale, che riveste una funzione essenzialmente metaforica) e un ritmo lento, ma inesorabile, sopprimendo deliberatamente le azioni adrenaliniche e le esplosioni tipiche del cinema hollywoodiano. Per Bittanti, il film diretto da Kelly contiene tre messaggi fondamentali: non conosciamo realmente nessuno, ogni nostra azione produce una reazione, e la condizione umana è sostanzialmente l’intrappolamento. Citando le parole di Arlington Steward (Frank Langella), personaggio misterioso che consegna la scatola con il bottone ai coniugi Lewis (Cameron Diaz e James Marsden), dal giorno in cui nasciamo fino alla nostra morte siamo costretti a trascorrere l’intera esistenza inscatolati: «guidiamo una scatola con le ruote, viviamo in una scatola con il letto, lavoriamo in una grande scatola piena di cubicoli, ci rilassiamo guardano una scatola che ci erode l’anima». Infine, il corpo inevitabilmente decade e viene deposto in un’ultima scatola, dove si decompone lentamente. Secondo Franco Marineo, che firma l’articolo successivo, The Box conferma la sensazione che Kelly sia a volte troppo attento al consolidamento del suo status di autore di culto, «alla costruzione di un maledettismo surreale che rappresenta la sua sigla più lampante». Per Marineo, la smisurata ambizione autoriale di Kelly è allo stesso tempo la sua fortuna e la sua maledizione. Nell’ultimo articolo dedicato a The Box, si ricorda il prolifico contributo dello scrittore Richard Matheson sia in ambito cinematografico che televisivo. Oltre a essere un romanziere, Matheson ha ideato ben sedici episodi delle prime cinque stagioni di The Twilight Zone (Ai confini della realtà, Rod Serling, 1959-1964) e molti dei suoi racconti sono stati fonte di ispirazione per la realizzazione di celebri film, come Duel (id., Steven Spielberg, 1971) e Stir of Echoes (Echi mortali, David Koepp, 1999).

 

Per la sezione “incontriepercorsi” Luciano Barisone e Carlo Chatrian hanno intervistato Michelangelo Frammartino, concentrandosi principalmente sulla realizzazione de Le quattro volte, suo secondo lungometraggio, presentato al 63° Festival di Cannes nella sezione «Quinzaine des Réalisateurs». Dalla conversazione emergono molteplici aspetti relativi alla regia, come i movimenti di macchina e la scelta delle locations. Frammartino rivela ai suoi intervistatori di aver posto particolare attenzione nei confronti del suono. Prendendo spunto dalle lezioni pitagoriche, durante le quali gli allievi, posizionati di fronte a un telo bianco, ascoltavano gli insegnamenti del proprio maestro senza poterlo vedere, il regista di origine calabrese dà vita a «un film acusmatico», dove ogni elemento sonoro sembra provenire da dietro lo schermo cinematografico. Chatrian, che approfondisce l’analisi de Le quattro volte nella scheda successiva, considera «importante e originale» l’opera di Frammartino in quanto propone allo spettatore una riflessione sul cinema, caratterizzata da un linguaggio tecnico ed estetico predominante rispetto al ‘semplice’ contenuto del film. Sempre nella stessa sezione, Alessandra Matella cura l’intervista ad Abbas Kiarostami, che racconta la genesi di Copia conforme, presentato anch’esso al 63° Festival di Cannes. Il personaggio femminile del film, scritto dal regista iraniano appositamente per Juliette Binoche, non ha né nome né background: infatti, l’attrice francese è chiamata a interpretare una donna che vive un’esperienza universale. Il paesaggio toscano diventa «uno dei personaggi della pellicola»: per Kiarostami la Toscana rappresenta il luogo geografico ideale per filmare una storia intrisa d’arte, passato, «copie e originali». L’intervista al regista e la scheda dedicata al film evidenziano come, negli ultimi decenni, il cinema sia lo strumento privilegiato dagli iraniani per interpretare «tensioni e mutamenti di un Paese complesso e ricco di antiche tradizioni».

 

Nella sezione “portfolio” Giovanni Chiaramonte recensisce la mostra Stanley Kubrick fotografo 1945-1950, allestita al Palazzo della Regione di Milano. Per il critico, la mostra offre la preziosa occasione di riscoprire le prime immagini del grande cineasta newyorkese che ha compiuto la sua formazione artistica lavorando come fotografo per la rivista statunitense «Look» nel complicato e decisivo passaggio dall’ultima adolescenza alla prima giovinezza. Grazie a una macchina fotografica Graflex, ereditata dopo la morte del padre, il giovane Kubrick ha saputo trasformare ogni suo sguardo gettato sulla realtà in un’immagine in bianco e nero di qualità pari a quelle realizzate un ventennio prima da Alfred Stieglitz e Paul Strand. Per il regista americano «pensare all’aspetto visivo di una scena quando la si concepisce può essere un trucco che la imprigiona [...] non c’è nulla di peggio dello studiare una concezione visiva che in realtà non appartiene alla scena».

Nella sua parte centrale, il numero doppio di luglio-agosto dedica uno speciale ai Rolling Stones, curato da Matella, Luca Barnabé e Massimo Rota. I redattori prendono in esame il documentario realizzato da Stephen Kijak, Stones in Exile, che contiene materiale inedito risalente ai mesi in cui gli Stones si ritirano sulle colline della Costa Azzurra per dar vita alla loro celebre raccolta, Exile of Main St. (1972). Lo speciale vanta anche il contributo del musicista Bill Janovitz, autore di un saggio critico, pubblicato da Il saggiatore, interamente dedicato all’album del leggendario gruppo rock.

 

Infine, per la sezione “scenari” resta da segnalare l’intervista a cura di Massimo Rota a Ferdinand von Schirach, avvocato penalista che nel corso della sua carriera si è occupato di alcuni dei casi che hanno maggiormente influenzato l’opinione pubblica tedesca. La sua opera prima, Un colpo di vento, analizza con lucidità e distacco l’essenza del crimine e le dinamiche che lo regolano. Von Schirach confida al giornalista che il suo processo di scrittura si compie per immagini: «è stato anche per via di alcune pellicole che mi è venuta voglia di diventare avvocato. La mia preferita era Anatomia di un omicidio [1959] di Otto Preminger, uno dei migliori film processuali che siano mai stati prodotti».

 

di Francesca Valeriani


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