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Santarcangelo 40 – primo w.end Festival

Santarcangelo dei Teatri ha 40 anni e porta in piazza i suoi figli. Mai come per questo quarantennale il rapporto tra il festival e la città è stato così stretto ed evidente. All’arrivo a Santarcangelo di Romagna l’atmosfera di festa è travolgente: tra passeggini, bancarelle e piadine si incrociano ovunque i segni rossi di un teatro che incardina tutte le pulsioni esplosive, rivoluzionarie, evasive o partigiane degli artisti coinvolti. È il rosso pantone 186C, il rosso dell’utopia di Enrico Casagrande: «il colore della rivolta, lo scrivo con uno sfrontato senso nostalgico con cui convivo senza vergogna». Il direttore artistico dell’edizione 2010 si impone con il suo carattere discreto e sereno e con la prepotenza visiva e tecnologica dei suoi Motus, realizzando un festival che verrà ricordato per l’altissimo coefficiente di partecipazione e interazione tra attori e spettatori consapevoli ma anche casuali, per l’innesto programmatico della formula dell’installazione teatrale, per la capacità di raccogliere dalla contemporaneità – dall’esibizionismo di facebook alla finale dei mondiali – le sollecitazioni per una riflessione attiva sul presente e sul futuro.

 

Già dallo scorso anno il coordinamento critico-organizzativo del triennio di Santarcangelo 2009-2011, composto da Silvia Bottiroli, Rodolfo Sacchettini e Cristina Ventrucci, aveva ripensato il festival a partire dall’idea di “spazio pubblico”, recuperando l’originaria dicitura Festival Internazionale del Teatro in Piazza.

 

La “techformance” Dominio pubblico di Roger Bernat si svolge nella piazza principale della cittadina romagnola: gli spettatori si distinguono dai passanti per le grosse cuffie sulla testa, e per i gesti inusuali che li spostano in gruppi sempre rimescolati: sottoposti a un interrogatorio di domande intime via via più complesse, gli “spett-attori” agiscono in base a risposte individuali, arrivando a inscenare un conflitto tra poliziotti antisommossa e manifestanti, in un clima da dittatura. Anche gli israeliani Public movement insceneranno in altra piazza una celebrazione del potere con marcia e auto diplomatica, mentre i quattro attori del gruppo anglo-tedesco GobSquad sono in giro per la città con una Super night shot, potente videocamera in grado di riprendere anche di notte la volatile e distratta drammaturgia del quotidiano: a fine serata, tutti al Supercinema a godersi sul grande schermo il proprio minuto di celebrità.

 

Le direzioni privato>pubblico, spazio chiuso>piazza, indifferenza>partecipazione, rappresentano solo alcune delle chiavi di lettura della ricchissima programmazione del festival, che inventa e apre nuovi spazi, dalle case dei santarcangiolesi per le proiezioni di documentari in tv, agli orti urbani, al centro commerciale, alla pompa di benzina sulla via Emilia, all’ex Corderia, spazio industriale a pochi passi dal centro, riqualificato come spazio teatrale con platea da 200 posti.

 

Anche se non direttamente abitati dal pubblico, rivivono i 150.000 mq dell’ex cementificio Buzzi Unicem, gigantesco polo industriale a 5 km dal centro in direzione San Marino, chiuso con la liquidazione dei suoi dipendenti appena 2 anni fa: sotto la guida dell’architetto Manolo Benvenuti, gli allievi del laboratorio di Design urbano sostenibile hanno collocato nuovi oggetti di arredo urbano, per lo più sedie e panchine dalle forme fantasiose ma inaspettatamente comode, realizzate con pallets di legno.

 

Più raffinato, e con erba sintetica, il notturno Pic-nic champagne a cura di ANGELO MAI + bluemotion, un gruppo di musicisti e performer di altissimo livello (tra gli altri, Andrea Pesce, tastierista dei Tiromancino, Roberto Dell’Era, bassista degli Afterhours, Matteo d’Incà, chitarrista di e con Andrea Rivera, l’affascinante cantante dal timbro darkmelodico Titty Pigalle) accampati su una terrazza che si apre sulla salita alla rocca, per offrire bibite frutta e splendide cover di hits rock & pop degli ultimi 40 anni.

 

Innervati nella topografia cittadina sono anche gli interventi di “arte pubblica”: coordinati dal bolognese Ericailcane, gli street artists Dem, 108, Hitnes, Kabu, Run, Zbiok hanno colorato con pennelli e rulli una mappa di bestiari fantastici su quattro grandi pareti che rimarranno alla città, improvvisando un disegno compositivo e cromatico collettivo, in un dialogo serrato con le architetture urbane. In particolare i primi due, mantenendo la tipica e assoluta riservatezza, hanno collaborato al progetto di Silvano Voltolina, Mio, con una quindicina di bambini di circa 10 anni vestiti di rosso che scorazzano per le impervie salite del paese antico e le trasformano in effimeri palcoscenici delimitati dal tappeto mobile in pvc rosso. Con la collaborazione drammaturgica di Roberto Fratini, le voci scatenate declamano fiere affermazioni di identità e responsabilità, invitando il pubblico divertito e trafelato a infrangere le regole solitamente inflitte ai bambini «Mettetevi le dita nel naso! Camminate scalzi! Sporgetevi dai muretti per guardare il panorama!». Segno tangibile di questa infantile spinta libertaria, grossi animali dipinti ex tempore sui muri dall’orso-disegnatore e colorati a gessetto dai bambini.

 

Domina la forma video nell’installazione dei Codice Ivan, gruppo fiorentino in viaggio a/r da Santarcangelo in treno e a piedi: i due performer hanno registrato il percorso di allontanamento con webcam e commenti verbali, rimontati nei tre schermi della Collegiata. Le immagini girate restituiscono con un tocco di poesia il mondo esterno, i sentieri deserti e assolati e le stazioni affollate: una performance in differita che accentua lo scarto tra la stanzialità dello spettatore e le infinite potenzialità di movimento per l’attore, che documenta le tracce della sua assenza.

 

Tangibile e inquietante invece la presenza di Marco Cavalcoli, eccezionale interprete della compagnia ravennate Fanny & Alexander, al cui viso cordiale è impossibile non sovrapporre il baffo hitleriano di Him o il ricordo di un agnello tra le sue braccia in Amore. Qui nei panni inconsueti di guardasala all’installazione del suo gruppo, presso il bastione ottagonale delle ex Carceri interamente foderato di rosso, si compiace della presenza di una finestrella che allunga lo sguardo fino al colle di San Marino, e che completa suggestivamente il percorso circolare costellato di foto e ritagli variamente associati – l’attentato a papa Wojtyla, il crollo del Muro, la Zattera della Medusa di Géricault, Piazza Tien a Men o personaggi fotografati con pistole e telecomandi – secondo un processo di accumulazione collettivo che costituirà l’Atlante rosso del Festival.

 

A pochi metri di distanza le domande incessanti proiettate sulle mura da Office for a Human Theatre tartassano il passante con provocazioni e massime alla Jenny Holzer: «Hai bisogno di te? Ricordi la sensazione di cadere svenendo? L’importante è arrivare alla fine». Per fortuna ci hanno risparmiato «L’importante è partecipare», in uno dei rari interventi d’artista, tra i moltissimi del Festival, che non prevedesse, nonostante la formula dell’installazione, la presenza fisica di un attore o un azione del pubblico.

 

Diversa l’esperienza con i torinesi Portage, che muovono dall’azione performativa di un barbuto piromane con piste di polvere da sparo su tavolo di vetro infuocate da traiettorie sonore, per raccontare Adamo’s home project. La casa montata in una notte nell’introvabile parco Baden Powell, fatta brillare all’alba della domenica – tutto sotto l’occhio delle telecamere – è in contrapposizione esplicita al racconto de Il Tetto, film di Vittorio De Sica del 1956, in cui si costruisce una casa di notte, secondo l’antico diritto per cui, se il tetto viene posizionato entro il sorgere del sole, non si incorre nella demolizione per abusivismo. Il crollo è parte del progetto di edificazione, esibita nel video accelerato come momento culminante di un percorso ben più faticoso di riflessione sulle ragioni del costruire e dell’abitare, come suggeriscono i plastici di case e alberi soffocati da bolle d’aria, al centro di un’installazione a metà tra una mostra di architettura e un corso per dinamitardi.

 

Definitivi ed esplosivi anche i friulani Cosmesi, che travolgono nell’assordante nichilismo di un concerto roots dei Rotorvator: rassegnati in un nero senza speranza ma ancora forte di un’energia rauca e distruttiva, trasmettono su un altissimo schermo immagini disturbate di crolli e catastrofi, mentre una luce illumina a tratti il campo lungo dello Sferisterio. Schiacciata dai decibel l’attrice Eva Geatti picchia per terra uno straccio bianco, fino a rimanere paralizzata dall’epifania finale: «Chi ha orecchie per sentire non ha occhi per piangere».

 

Sulla linea dell’invettiva nichilista e straziata dalla banalità crudele del quotidiano i Babilonia Teatri ci regalano l’ennesimo prezioso blob teatrale, arricchito dalla partecipazione di 10 attori selezionati tramite un bando lanciato su youtube: dopo le bare dorate di Popstar, This Is the End My Only Friend the End riflette il modo in cui la morte abbia cambiato collocazione e percezione nel sentire dell’uomo contemporaneo, edulcorata nei riti e temuta e allontanata come aggressione innaturale alla vita. Le immagini della fine affiorano violente e irridenti nelle litanie corali del gruppo di attori inginocchiati sul pavimento scarno delle Corderie, occhi negli occhi al pubblico: l’ultima sigaretta alla stazione di Viareggio, la brutta fine di Lady Oscar, la descrizione dettagliata dei segni della vecchiaia, sono contrapposti al perpetuarsi di telenovele e profili sui social network, ancor più frequentati quando ci sopravvivono in caso di morte violenta. A riconciliarci con l’ineluttabilità della fine, una scrofa tagliata a metà cade in proscenio con tutto il peso e l’odore della carne macellata, a introdurre il più alto inno alla dignità della morte: «Voglio il mio boia, voglio un colpo di pistola, voglio un’assicurazione contro la morte lenta. Non mi farò lavare il culo da una troia che non parla la mia lingua». E dopo l’esplosione tumultuosa e catartica dei Nirvana di Smells like teen spirit, i dieci attori, non giovani, non belli, capeggiati dallo sguardo assassino dell’unica dei Babilonia in scena, Ilaria dalle Donne, consumano in sincrono un Alligalli silenzioso e agghiacciante.

 

Nel silenzio dello stadio di Santarcangelo si apre infine il grandioso Finale del mondo, dei sempre più geniali e cinici Teatro Sotterraneo. L’operazione site&time specific, in contemporanea con la finale della FIFA World Cup in Sudafrica tra Spagna e Olanda, è uno spettacolo che percorre circa 20 minuti del secondo tempo, «ma che si disinteressa della finale dei mondiali». I timer rossi aggiornano il pubblico in tribuna sul minutaggio del gioco e sull’ora reale, un collegamento radiofonico vero con Radio Tre Rai manda in diretta questo corto circuito tra il micro e il macro, tra il paesino romagnolo e l’evento mediatico globale, senza mai dirci cosa succede realmente in campo, mentre un altro collegamento fittizio segue un inviato nei sobborghi miseri e deserti di Johannesburg. Due “calci-attori” si sfidano in un mach uno contro uno nel campo vuoto dello stadio, portando in rete la palla ogni volta con tripudio del pubblico presente: il gioco solleva e distrae dalla drammatica radiocronaca dell’inseguimento di un uomo che sta per entrare nello stadio di Johannesburg con una bomba: l’inviato lo racconta con affanno e paura, lo vediamo entrare in campo, abito scuro e valigetta, i minuti stanno per finire, ma l’uomo si ferma a cantare The show must go on, e la partita, quella vera, va ai supplementari. Spaventosa profezia: a Kampala, in Uganda, la milizia somala vicina ad Al Qaeda quella sera mette a segno due attentati uccidendo 74 persone che seguivano la finale in due locali pubblici. La Spagna vincerà i Mondiali, il pubblico di Santarcangelo avrà firmato sul tabellone di Valentina Vetturi se contare tra gli «Indifferenti o partigiani», Filippo Timi chiuderà il festival con uno dei titoli più divertenti e ammiccanti degli ultimi anni: Laifi snao.

 

 

                                                            di Fabiana Campanella


 
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