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Leonetta Bentivoglio

Pippo Delbono. Corpi senza menzogna


Firenze, Barbès, 2009, pp.163, euro 22
ISBN 978-88-6294-052-8

Chi ha la fortuna di partecipare alle performance-rito della compagnia Pippo Delbono sperimenta una vera e propria metempsicosi delle emozioni: esse colpiscono violentemente lo stomaco degli spettatori e vanno a depositarsi nel fondo della loro anima. Da lì, giorno dopo giorno, in un continuo ed incessante ritorno (del rimosso), perseverano nel mettere in comunicazione l’inconscio con la razionalità. Che lo si voglia oppure no, da questo infinito incontro-scontro scaturiscono suggestioni che vanno ad alimentare la coscienza critica e permettono di saturare parte dell’intorpidimento mentale imposto dai mezzi di comunicazione di massa.

 

Difficile parlare di ciò che è il “teatro” di questo artista. Esso è semplice e complesso al tempo stesso: è una tra le manifestazioni più prossime al suo etimo – il luogo in cui si guarda – e comunica il vissuto di chi in quel momento la scena la vive; eppure vi confluisce una tale stratificazione di esperienze da renderne spesso difficile la comprensione. Ma la consapevolezza razionale non è il fine del lavoro predisposto dall’artista. Il teatro deve contrapporsi con tutte le sue forze al cancro che affligge il Teatro Borghese e combattere le «convenzioni della più banale narrazione televisiva» (p. 96), che si contenta del rassicurante livello di comprensione più superficiale. Perché «l’arte ha senso solo se la percepisci in profondità, se ti cambia qualcosa dentro» (p. 96). In più, in una società “esteriore” in cui ­«non importa quel che fai, ma ciò che dici» (p. 98), il teatro deve essere innanzitutto verità. Per raggiungere questo grado di sincerità i media privilegiati da Delbono non potevano che essere i corpi senza menzogna di cui si racconta nel volume di Leonetta Bentivoglio. Essi sono quelli “naturalmente” liberi dalle sovrastrutture culturali e concettuali che permeano le convenzioni del Teatro Borghese.

 

Parigi

 

Come l’autrice evidenzia nell’introduzione, significativamente intitolata Dance, dance otherwise we are lost (l’influenza di Pina Bausch giustamente trasuda dalle pagine del libro), i corpi di Bobò, di Gianluca e di Nelson (quelli cui allude il titolo) «riflettono la percezione di una remota armonia del corpo e di un’assoluta e radicale assenza di retorica nei movimenti» (p. 13). I tre, grazie alla loro specifica “diversità”, sono costretti a stabilire con il loro corpo un rapporto franco: in qualche modo essi, nella vita, devono confrontarsi con la loro fisicità, con il loro “Corpo Diverso”. È per questo che hanno la legittima possibilità di incarnare il “Corpo Teatrale”: «l’essere presente  sulla scena non attraverso la psicologia, ma attraverso la profonda consapevolezza del proprio corpo» (p. 131).

 

Il volume di Bentivoglio scaturisce da alcune conversazioni che la giornalista ha intrattenuto con Delbono nell’Aprile 2009, periodo in cui la compagnia stava presentando l’ultimo spettacolo, La Menzogna, ispirato ai fatti della tragedia alla Thyssenkrupp. La struttura preventivata doveva essere quella del dialogo-intervista. La forma finale, però, vede uno sviluppo da «collage testuale», in cui tutte le domande sono state tagliate e sono state lasciate soltanto le lunghe risposte, organizzate secondo paragrafi tematici.

 

Gianni nella Menzogna

 

Il lettore, grazie al rapporto tra il testo e le moltissime fotografie inserite (tutte di Delbono), è condotto in un viaggio sensoriale delirante, forte e affascinate, attraverso il quale può entrare in contatto con il pensiero di un artista difficile, spesso troppo complesso, ma sempre raffinato, emozionante, attraente ed erotico, per usare un termine a lui caro. Egli ci apre le porte del suo mondo più intimo (secondo il modello di Racconti di Giugno, ma anche di tutto il suo teatro), perché il privato è politico, e tratteggia la vita che ha condotto: «un percorso che è incoerente, doloroso, pieno di errori, ma che è comunque un cammino» (p. 98). Nessun intento panegiristico o voyeuristico, però, dietro a questa operazione: Delbono vuole semplicemente mostrare l’estrema coerenza del lavoro compiuto. Quest’ultimo rispecchia in toto la vita del suo creatore, alieno dalla schizofrenia totale tra il “dire bene” e il “razzolare male”. L’esperienza di Delbono – che ricorda molto quella di un altro grande del Novecento, Jean Genet – ci suggerisce che c’è sempre una possibilità di redenzione, che passa in primis attraverso la relazione sincera e naturale con l’altro, il diverso da noi. Perché noi siamo diversi da lui: è una questione di democratica presa di coscienza del relativismo dell’essere, scaturita da una vocazione “cristiana”, intesa ovviamente al di fuori di ogni idea confessionale e chiesastica.

 

di Diego Passera


La copertina

cast indice del volume


 

Gustavo nella Menzogna
 
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